L’ascesa alla ribalta del “caso Ilva” ha avuto, fra le conseguenze più immediate, la nascita di una autentica “mitologia” sociale: artisti e filmmaker sono stati fra i primi a comprendere, insomma, come la battaglia in campo non fosse soltanto quella tristemente reale delle morti e dei doveri disattesi da chi tira le fila del mondo del lavoro e della politica. Al contrario, c’è una sfida ben più insidiosa, che va condotta al livello dell’immaginario, fra l’idea – furbescamente veicolata dai gangli del potere – della fabbrica come luogo di progresso e benessere economico verso il quale si può e si deve esprimere innanzitutto gratitudine; e, dall’altra parte, le campagne per la salute e l’ambiente che restituiscono all’Ilva la sua qualifica di corpo estraneo, una sorta di incubo tecnofobico e quasi fantascientifico, in una terra forzatamente (e a caro prezzo) convertita agli usi industriali.
Pippo Mezzapesa è uno dei nomi che hanno raccolto il guanto di questa sfida, e la sua testimonianza ha la forma di un cortometraggio di appena 9 minuti, SettanTA, prodotto da Fanfara Film e Repubblica.it. Un lavoro a metà strada fra la fiction e il documentario, secondo una formula da sempre cara al filmmaker di Bitonto, che già con opere come Produrre Consumare Morire, del 2005, si era confrontato con le realtà industriali (nello specifico con il petrolchimico di Brindisi), mentre in Pinuccio Lovero – Sogno di una morte di mezza estate (del 2007), aveva dimostrato la sua predilezione per “un doppio registro narrativo, greve e leggero”, come dice lui stesso. Stavolta, infatti, si racconta una giornata tipo nel quartiere Tamburi, in un complesso di palazzine fra le più vicine al centro siderurgico: ci sono le famiglie che, interrogate dall’occhio della macchina da presa di Mezzapesa, dicono la loro sull’annosa questione, dividendosi al solito fra chi pone la salute al primo posto e chi rimarca come la chiusura dell’industria porterebbe ancora più miseria – e non manca anche chi, a ragione, lamenta il fatto che di Taranto si parli solo in funzione del disastro ambientale e dell’Ilva, quasi una sorta di “anticorpo” che Mezzapesa sembra inserire in una trattazione comunque inflazionata del problema. E poi c’è la parte narrativamente più strutturata, con il classico personaggio su cui incentrare l’attenzione, ovvero Enzo “Baffone”, che tiene giornalmente una riffa nel cortile, con in palio una cesta di generi alimentari, per sbarcare il lunario, ma anche per introdurre un po’ di sogno e di fortuna nella quiete silenziosa di un luogo che sembra rassegnato a trascinare la propria esistenza (uno degli inquilini, non a caso, sottolinea come la sistemazione in quel palazzo sia “provvisoria”, sebbene vada avanti da decenni).
L’immaginario dunque: che è quello decadente da classico western italiano, non tanto per corrispondenza iconografica (non ci sono cavalli o pistoleri, se è questo che interessa), ma perché trova la sua forza espressiva nei volti segnati dal tempo e nei luoghi espressivamente in rovina, abbandonati a un destino di consunzione e battuti dal vento e dagli spettrali fumi dell’Ilva, capaci perciò di riverberare tanto l’urgenza della propria storia, quanto la mitologia di una terra che subisce una sorte quasi biblica nell’indifferenza e nell’abbandono del sistema amministrativo. Dove vige perciò la legge del più forte e ciò che resta è solo l’arte di arrangiarsi e sognare. Si instaura così una dialettica feconda tra la dimensione epica (nel senso etimologico di racconto delle gesta umane) del contesto, e la naturalezza “popolare” dei pensieri trasmessi dai cittadini. L’impresa di Enzo, in particolare, si staglia in quanto utopia di sopravvivenza, inconsapevole arma dell’immaginario, ma anche della società-spettacolo cui rispondere con mezzi altrettanto capaci di mettersi in evidenza.
La stessa scelta di condurre le interviste agli inquilini mentre sono affacciati alle finestre, sembra quasi riverberare l’idea del proscenio teatrale, della “galleria” o della “quinta” da cui commentare il mondo che si offre al livello più immediato della strada. Il doppio registro funziona sia a livello narrativo, con le due parti che si contrappuntano ritmicamente, sia nell’espressione emotiva che il lavoro finisce alla fine per suscitare, un po’ fiaba sognante su una vita che vuole andare avanti, sia malinconico racconto di decadenza ben sintetizzato dalle grida di Enzo (che chiama ripetutamente il numero “Settanta”) fra quella che appare come una generale indifferenza. Se ci sia o meno spazio ancora per sognare, è lasciato alla discrezione dello spettatore, mentre di reale resta la targa con cui i cittadini dei Tamburi maledicono “coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare”.
Realizzato nel 2012 e visibile gratuitamente in streaming, SettanTA ha vinto il Nastro d’Argento 2014 per il Miglior Cortometraggio, assegnato dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici. La battaglia dell’immaginario, da ora, ha un nuovo campione.
Nastri d’argento, vince il corto “SettanTA” all’ombra dell’Ilva
Pippo Mezzapesa: “Dedico il Nastro d’Argento alla città di Taranto e a mio padre”
Foto della premiazione (dal profilo FB di Pippo Mezzapesa)
Scheda di Pippo Mezzapesa su Cinemaitaliano.info
Pippo Mezzapesa su Wikipedia
Pippo Mezzapesa su IMDB