Attiva dal 2012, la Scuola pugliese di grafica e fumetto Grafite è la realtà formativa più strutturata che il nostro territorio possa offrire sul tema: attenta a radicarsi grazie a corsi in grado di coprire tutto l’arco tecnico e creativo legato alla nona arte, Grafite è anche promotrice di eventi e sempre pronta a unire le forze con le realtà delle fiere pugliesi – in cui è presenza immancabile – e con le maggiori personalità di spicco del settore, restituendo alla realtà locale una dimensione nazionale. L’entusiasmo e l’attenzione al reale è peraltro caratteristica tipica del suo fondatore Gian Marco De Francisco, autore di lavori impegnati e sempre in bilico fra Storia e memoria, che riportano alla luce figure altrimenti dimenticate delle cronache pugliesi, collegate a fatti solitamente ricondotti a dimensioni nazionali e altre rispetto agli spazi nostrani. Dopo l’esordio con Da grande, opera di denuncia sociale sul precariato nel mezzogiorno, edito da Lilliput nel 2006, De Francisco ha intrapreso una felice collaborazione professionale con la sceneggiatrice di Maglie Ilaria Ferramosca: la loro prima opera a fumetti è Un caso di stalking (Edizioni Voilier 2010) che declina il reato ancora così al centro delle cronache in una chiave thriller che ribalta le dinamiche più tradizionali (a essere perseguitato è infatti un uomo); il successivo Nostra madre Renata Fonte (001 Edizioni, 2012) rievoca invece il primo omicidio di mafia di una donna nel Salento, ai danni della consigliera comunale di Nardò, qui raccontata dalle figlie Sabrina e Viviana in un ritratto allo stesso tempo intimo e di grande caratura morale. L’ultimo lavoro è Ragazzi di scorta, uscito da pochi mesi per i tipi di BeccoGiallo, che fa luce sulle vicende umane e professionali prevalentemente di Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e, sullo sfondo, Vito Schifani, agenti di polizia della scorta di Giovanni Falcone, scomparsi insieme al magistrato nella stage di Capaci: eroi, ma anche ragazzi, pugliesi i primi due raccontati anche in questo caso nella loro dimensione più umana, fra giochi d’infanzia e la voglia di trovare il loro destino. Un racconto fatto di sogni, ambizioni e la voglia di lasciare il segno, che ci consegna altre figure di grande levatura, capaci di illuminare il buio dei tragici fatti della storia italiana degli ultimi trent’anni.
Entusiasta e altrettanto ambizioso, Gian Marco De Francisco racconta in questa intervista il suo lavoro di docente e autore: un’occasione preziosa per raccontare cosa significa fare fumetto a Taranto, con un occhio oltre l’ostacolo, fra le difficoltà del territorio e le dinamiche del mercato nazionale (e oltre).
Il tuo percorso nel mondo del fumetto comprende studi da architetto, uno stage con il grande artista argentino Carlos Meglia, ma ancora prima? Avevi avuto una formazione specifica?
No, ho iniziato come autodidatta, mosso dalla passione per il fumetto che avevo sin da piccolo. Come tutti nasco lettore, fantastico in particolare, mi sono formato con gli eroi americani, come Marvel e simili, anche se poi il mio percorso professionale mi ha portato da tutt’altra parte.
In questo ravviso effettivamente una continuità con il lavoro di Meglia, che è l’autore del fantascientifico Cybersix.
Sì, una serie che adoro, di lui ricordo anche un Superman, e, sul piano tecnico, è stato pure uno dei primi a sperimentare con Photoshop. Ho tutto di lui, anche le ultime cose fatte prima che ci lasciasse, che sono in alcuni casi poco leggibili per eccesso di sperimentazione: in effetti eravamo fra il 1999 e il 2001, all’alba del digitale applicato al fumetto, con Photoshop, i filtri, le tecniche per fare i movimenti veloci, tutte cose che oggi sono diventate più fluide, ma che allora non rendevano chiara l’azione. Lui era animato da grande curiosità e inevitabilmente si divertiva a cercare nuove soluzioni.
Ma come sei arrivato a lui?
Attraverso un concorso nazionale di Montimages, organizzato da Erika e Katja Centomo a La Salle, in provincia di Aosta, dove ho inviato una delle tavole del mio primo lavoro, Da grande – che all’epoca doveva ancora uscire. In tutta Italia siamo stati presi in 20 per partecipare allo stage con Meglia. La cosa interessante è che fra quei 20 c’era gente che poi ha fatto strada, ad esempio Luca Bertlé, ora colorista di Orfani, o Gianluca Maconi che ha fatto molto per Hazard e che adesso disegna ancora per Orfani, poi Andrea Vivaldo che ha lavorato tempo fa per BeccoGiallo e Giulia Pellegrini che se non sbaglio ora collabora con Riccardo Federici. Nel tempo molti hanno abbandonato e alla fine siamo rimasti in 4. Alcuni di quelli che se ne sono andati erano davvero molto bravi, ma non hanno avuto forse la testardaggine (o l’incoscienza) che mi caratterizza e che mi ha permesso di andare avanti. Lì ho imparato il valore della disciplina e della perseveranza, che ho poi portato nei corsi di Grafite. Dopo lo stage con Meglia ho poi fatto altri workshop, con una media di uno all’anno: ad esempio uno con Barbara Canepa sulla colorazione digitale, e poi ancora altri, sia in Puglia che fuori. Mi sono imposto, insomma, un percorso di questo tipo. Nel frattempo ho anche completato gli studi, laureandomi nel 2003 e già da qualche anno lavoricchiavo in alcuni studi.
Ma come mai architettura? Ti appassionava o è stata la classica scelta fatta pensando che il fumetto non ti avrebbe mai dato da vivere e quindi era meglio studiare qualcosa di più “serio”?
Sono stato spinto dai miei genitori: io avrei fatto il fumettista da subito, frequentando una scuola di fumetto – in Puglia all’epoca non ce n’erano, ma erano già attive la Scuola Internazionale di Comics di Roma, e la Scuola Italiana di Comics di Napoli. La famiglia mi ha invece esortato a studiare architettura, con la classica prospettiva di portare avanti entrambe le cose, lo studio “serio” e il fumetto. Architettura mi ha poi appassionato, era comunque qualcosa che mi ha sempre permesso di mantenere familiarità con il disegno e oggi porto avanti entrambi gli interessi con grande soddisfazione, realizzo fumetti e lavoro anche nel campo degli oggetti di design. Faccio insomma ciò che mi sento davvero, un progettista.
Da architetto hai quindi fondato lo Studio iltratto.com, che poi è diventata un’associazione culturale.
Sì, l’ho fatto perché non me la sentivo di fondare una società: spesso aprono in grande stile e poi finiscono miseramente. Lo Studio iltratto è associazione culturale dal 2011, sono passati cinque anni ed è ancora in buona salute e speriamo continui così. Anche perché vedo che non siamo rimasti in molti…
Da qui come si arriva alla nascita di Grafite?
Dopo la laurea e l’apertura dello studio iltratto – siamo nel 2007, già in un momento successivo all’incontro con Meglia e ai vari workshop prima citati – ho iniziato a tenere dei corsi dove insegnavo le tecniche per portare il fumetto nel XXI secolo, con colorazione digitale e altro, tutti aspetti che sono sempre stati una mia passione. A beccarmi sono stati i ragazzi di Lupiae Comix di Lecce.
Ovvero il grande Fabrizio Malerba!
Esattamente, una grande persona e un grande professionista, purtroppo a mio avviso sottostimato per molto tempo dal territorio: la Lupiae Comix è attiva da 15 anni ed è stata la prima realtà fumettistica della Puglia. Però, a causa del suo carattere schivo e poco “commerciale”, Fabrizio tendeva a restare nella sua nicchia, pur consolidandosi a Lecce, e da lui sono usciti una marea di allievi, ha stretto rapporti con autori, ha fatto davvero tante cose. Poi sono arrivato io e con la mia solita presunzione e incoscienza, ho tentato di portarlo fuori dal guscio. Così abbiamo trasformato Lupiae Comix in un progetto più grande, associandoci come Lupiae Comix-iltratto (il marchio Grafite sarebbe arrivato dopo), e abbiamo inaugurato il corso per la realizzazione del fumetto in digitale. All’inizio lui era scettico, temeva che ai suoi ragazzi non interessasse questo aspetto, ma quando è uscito il mio Un caso di stalking, ci si è resi conto della bontà della cosa e nel 2009/2010 il corso è partito con successo, come terzo anno di Lupiae Comix.
All’epoca Taranto come si collocava in questo scenario?
Taranto non era ancora sensibile a questi argomenti: la collaborazione con Lupiae è partita con successo, il primo anno abbiamo avuto 12 allievi e, escludendo una pausa l’anno successivo per i costi di gestione ancora molto alti, non ci siamo più fermati. Così, sull’onda dell’entusiasmo, ho deciso di “provocare” Fabrizio per aprire un corso anche a Taranto. Non nascondo che avevo nel frattempo tentato di capire quale fosse la situazione in città, non era mia intenzione “sbarcare in forze” qui ignorando le realtà già attive. La situazione di quello che sarebbe poi diventato LABO, però, era un po’ blindata, da un lato per motivi pregressi alla mia entrata nel mondo locale del fumetto e dall’altra perché Fabrizio Liuzzi e Gabriele Benefico avevano messo su nel tempo una bella squadra che disponeva già di tutte le competenze necessarie per i propri scopi, e quindi all’epoca non c’erano oggettivamente le premesse.
Il tuo progetto era quindi ambizioso, unire LABO e Lupiae in un’unica entità.
Sì, forse ingenuamente mi vedevo come il collante fra realtà diverse, o quantomeno fra vari artisti, basandomi sul principio che siamo tutti fumettisti e potevamo unire facilmente le forze. Naturalmente non tenevo conto delle specifiche esigenze delle due realtà, a volte mi dicono infatti che sono un po’ sfacciato, ma, da novizio del settore, ero un’entusiasta e pieno di voglia di fare. La Storia, insomma, ha portato ad altro e così, nel 2012, decido di forzare la mano a Fabrizio Malerba per unire iltratto e Lupiae in un progetto nuovo, con un nuovo nome, ovvero Grafite. Naturalmente non volevo che Lupiae, che aveva ormai una storia più che decennale alle spalle, “sparisse” nel nuovo marchio, era una questione di rispetto verso una realtà che era diventata un caposaldo: infatti su Lecce rimane tuttora la dicitura Gruppo Grafite-Lupiae Comix. Perciò, il 6 Ottobre 2012 è nato ufficialmente Grafite al Salone della Provincia con il suo logo. Abbiamo iniziato con tre soli allievi a Taranto, naturalmente in passivo. All’inizio nessuno avrebbe scommesso due lire su questa idea, oggi per fortuna il nostro “cantuccio” è diventato grande.
A questo punto della storia, Grafite era attiva a Lecce e anche a Taranto. Come sei arrivato ad aprire una sede anche a Bari?
Su Bari ero già presente, in varie forme: dal 2005 al 2010 sono stato responsabile per la formazione nel settore interior design per un’accademia privata e durante quegli anni iniziava a strutturarsi lo Studio iltratto.com. Quindi, a vari livelli, avevo già molti contatti su Bari, pian piano abbiamo anche agganciato gente come Domenico Sicolo di Hamelin Cartoon Studio, che pure aveva già collaborato con Lupiae Comix, e abbiamo messo in piedi un’altra sede di Grafite. Io sono per la politica dei piccoli passi e avevo già verificato che a Taranto venivano ragazzi da Bari per seguire i corsi di Grafite, quindi ho capito che c’era interesse per la nostra proposta anche nel capoluogo.
Cosa distingue Grafite dalle altre realtà che si dedicano al fumetto?
Il merito di Grafite, se vogliamo, è di aver messo in piedi un percorso didattico completo. Aggiungo che alcuni nostri allievi ed ex allievi, che hanno poi frequentato altre realtà e hanno potuto fare i confronti sul campo, ci hanno fatto i complimenti perché Grafite include nel suo pacchetto formativo anche elementi che in altre scuole sono considerati extra e vanno pagati a parte – come ad esempio quello di fumetto digitale, che fa parte del programma del terzo anno e che altrove è invece un master del quarto anno. Quindi abbiamo creato un percorso più compatto e lineare, anche perché non ci piace nemmeno salassare i nostri studenti, soprattutto considerando che il settore non offre immediati sbocchi di lavoro, tali da giustificare subito investimenti faraonici. Al contrario, dopo la scuola c’è da aspettarsi una lunga gavetta, anche di cinque-dieci anni: come fai a chiedere tanto denaro a un ragazzo e alla sua famiglia? E’ una questione di buon senso. Noi cerchiamo di offrire di più, nei limiti imposti dalla copertura delle spese.
Quali sono i requisiti per essere ammessi? Prima citavi l’importanza della perseveranza, appresa durante il corso con Carlos Meglia…
Sì, fin dall’inizio ho impostato la scuola su un discorso di determinazione, prima ancora che di talento. All’inizio di ogni corso il potenziale allievo sostiene un colloquio motivazionale, che mi serve a capire quanto è determinato. I disegni mi interessano poco in questa fase, faccio delle domande su cosa ci si aspetta e sinceramente non tutti rispondono come mi aspetterei, alcuni lo fanno perché non hanno nessuna alternativa migliore e in quel caso non entrano. Naturalmente respingere un potenziale allievo significa rinunciare a un’entrata economica, una volta ne ho scartati cinque in una giornata, è una selezione severa ma necessaria. Questo però mi permette di avere classi con un “ritiro potenziale” di una/due persone: significa cioè che le persone selezionate tendono nel complesso ad arrivare fino in fondo e solo in pochi abbandonano durante i tre anni di corso, altri naturalmente non passano i colloqui di fine anno, ma in generale questo approccio così selettivo permette di non fare “massacri” alla fine. Per darti qualche cifra indicativa, se si parte in 15, di solito si finisce al terzo anno in 8/10, che comunque è una buona media, soprattutto considerando il nostro territorio. In generale abbiamo un centinaio di allievi spalmati sulle tre sedi di Taranto, Lecce e Bari – altre realtà viaggiano naturalmente su numeri molto diversi: Roma ad esempio ha 550 allievi, Napoli invece 250 ad anno.
Fra le tre piazze (Taranto, Lecce e Bari) qual è quella che risponde meglio?
Non ho i dati sottomano, ma in generale direi che Lecce è quella che risponde di più, seguita da Taranto. Bari non è ancora arrivata al terzo anno, la scuola è aperta solo da due e quindi non abbiamo completato un primo ciclo che ci permetta un bilancio più preciso. Quest’autunno partirà il terzo anno e con orgoglio posso dire che siamo già quasi al completo per le iscrizioni al nuovo primo anno.
Parliamo in maniera più approfondita di come funziona la scuola.
Il primo anno si lavora interamente sulle tecniche a matita e serve a capire se l’allievo è fatto per questa professione – qualcuno infatti si lascia intimorire dalle scadenze e dai vari meccanismi del mestiere. Quindi non si tratta di semplice relax, fin dall’inizio noi mettiamo una serie di criteri da seguire e i ragazzi devono proporre alla fine dell’anno un portfolio con tutto quello che hanno studiato nei mesi precedenti: anatomia, studio del personaggio, prospettiva, manichino dinamico e oltre a questo bisogna produrre anche delle tavole a fumetti. La fine dell’anno diventa così una sintesi di tutto quello che viene studiato nei mesi precedenti. Il secondo anno si concentra su sceneggiatura e inchiostrazione: a questo punto, infatti, si è capito chi ce la fa a reggere lo stress e vuole andare avanti e si può lavorare su questi aspetti più specifici.
E se lo studente fosse interessato soltanto al lavoro di sceneggiatore, più che al disegno?
In questo caso c’è il modulo separato e si parte direttamente dal secondo anno con il corso di sceneggiatura. Il confronto con i ragazzi che vengono dal primo e che hanno studiato disegno, però, spesso fa capire come sia meglio studiare il percorso completo, che è in grado di fornire una formazione più definita. D’altra parte noi miriamo a formare autori completi e consigliamo di effettuare tutto il percorso, poi chi vuole potrà decidere eventualmente di dedicarsi solo alla scrittura. Se però si vuole comunque studiare solo sceneggiatura non ci sono problemi, ogni anno abbiamo alcuni allievi per sede che scelgono questa strada.
Dopo quattro anni che bilancio puoi tracciare della scuola?
Se mi passi la definizione un po’ presuntuosa, mi sembra una Mercedes in un garage, nel senso che non sfruttiamo appieno il nostro potenziale, a causa delle limitazioni imposte dal territorio. In questo senso mi piacerebbe poter offrire di più. Come scuola siamo comunque riconosciuti e spesso siamo contattati apposta per partecipare a progetti come, ad esempio, il portale Verticalismi, in grado di offrire visibilità agli allievi. Naturalmente, quando ci arrivano gli inviti, valutiamo se i ragazzi sono pronti. Ad esempio BeccoGiallo ha messo sotto contratto una nostra allieva del terzo anno: d’altra parte la scuola funziona proprio così, alla fine del secondo e del terzo anno invitiamo gli editori a partecipare ai colloqui finali dei nostri studenti. Anche questo è un modo per arricchire sempre di più la nostra offerta.
Inoltre siete sempre in prima fila negli eventi, anche per quanto riguarda il portare in Puglia ospiti di prestigio, come è avvenuto con Carmine Di Giandomenico al BGeek o Emiliano Mammuccari a Bari.
Quella è una cosa che mi fa sempre piacere e che continueremo a fare. Per tanti anni siamo stati noi a inseguire gli autori in giro per l’Italia, oggi pensiamo che siano loro a dover venire da noi: il bello di essere un gruppo regionale, poi, permette di avere delle forme di compensazione. Non ragioniamo su una singola città ma su un territorio più vasto. Infatti non ripetiamo gli appuntamenti in più città, ragioniamo in un’ottica regionale. Portarli in Puglia è il nostro obiettivo. Poi come editori noi facciamo anche gli Open Day, quindi aperti al di là dei nostri studenti. La promozione ci interessa e cerchiamo di venire incontro a chi non ha i soldi necessari, anni fa avevamo anche delle borse di studio che oggi è più difficile proporre.
Veniamo quindi ai tuoi lavori da autore, iniziando da Da grande.
Da grande è l’unico dei miei lavori a essere uscito in edicola, in due parti fra Dicembre 2005 e l’inizio del 2006 e la cosa mi ha fatto molto piacere. La casa editrice era la Lilliput di Pierluigi Rota, di Mottola, che ebbe il coraggio di tentare questa strada attraverso il formato della rivista monografica, una specie di fanzine, di cui credo siano usciti 7 o 8 numeri. La mia storia era più lunga e ha preso due numeri: era un fumetto su Taranto e sui call-center, all’epoca ci lavoravo e quindi era in parte una vicenda autobiografica, in parte rifletteva la famosa “generazione mille euro”, perchè eravamo tutti precari… non è che sia cambiato molto sinceramente. E’ passato molto tempo da quella esperienza, ricordo le prime correzioni di Pierluigi: non erano moltissime, ma in ogni caso lì ho imparato che bisogna accettare i consigli dell’editore. E’ stata inoltre l’unica volta in cui ho fatto sceneggiatura e disegni – in fondo mi sento un po’ autore, infatti ho dei progetti nel cassetto che spero di poter portare a compimento quando sarò più maturo.
Già perché tutti i lavori successivi ti hanno visto solo ai disegni, mentre ai testi si è consolidato il legame professionale con Ilaria Ferramosca.
Sì, gestire entrambi gli aspetti è difficilissimo e quindi al momento sono contento di limitarmi ai disegni, anche se già adesso fornisco apporti alla sceneggiatura, non tanto sulle inquadrature, quanto sugli elementi della storia vera e propria: ad esempio con Ilaria Ferramosca discutiamo sempre molto. Con lei ci siamo conosciuti nel 2008 in un evento sul fumetto con Dante Spada organizzato a Palazzo Galeota da LABO Fumetto, all’epoca ancora Regno delle arti – è la stessa circostanza in cui ho conosciuto Fabrizio Malerba, peraltro. C’era anche Enzo Rizzi, vera colonna e pioniere del fumetto tarantino, lui è venuto prima di tutti noi. In quella circostanza ho quindi conosciuto Ilaria, cui è piaciuto il mio lavoro su Da grande: all’epoca ero in cerca di nuove storie su cui lavorare, e non volevo più accollarmi il peso di fare sia la sceneggiatura che il disegno, mi ero reso conto che era troppo faticoso. Ilaria mi ha quindi offerto una storia per la rivista TalkInk delle Edizioni Cagliostro e abbiamo iniziato a procedere. Da lì non ci siamo più fermati e la cosa mi fa molto piacere. In futuro, comunque, collaborerò probabilmente anche con altri autori: Ilaria predilige infatti una vena molto intimista, e vorrei occuparmi anche di opere più spensierate, sto già lavorando a qualcosa in proposito con altri sceneggiatori.
Qui si torna alle tue origini “fantastiche”: in effetti non ti nascondo che mi piacerebbe vederti alle prese con qualcosa di “non realistico”, in fondo la prima cosa che ho visto di tuo è l’immagine promozionale di Grafite, a tema fantascientifico, usata nelle locandine e nei manifesti, che mi ha subito colpito.
Ti ringrazio innanzitutto. Di quella ho realizzato le matite, mentre i colori sono del bravissimo Andres Mossa. Posso anticiparti che nell’immediato con Mirco Olivieri di Verticomics sto lavorando a una storia assolutamente fantascientifica, che uscirà quanto prima sul portale. Non vedo l’ora, adoro la fantascienza, mi piacerebbe molto poter realizzare una storia in stile Nathan Never, solo per citare un titolo.
La tua prima graphic novel con Ilaria Ferramosca è Un caso di stalking. Visivamente adoro l’idea di non aderire alla classica griglia con la canonica divisione in vignette.
Prendila con la dovuta ironia, ma Salvatore Primiceri, il fondatore di Edizioni Voilier, disse di questo fumetto “abbiamo il nostro Will Eisner, il Will Eisner pugliese” perchè in effetti mi ero rifatto proprio a Eisner, nella scelta di separare le singole azioni non con la tradizionale gabbia, ma sfruttando gli elementi architettonici o i giochi prospettici delle figure: è stata una scelta che ho perseguito fortemente e che ha comportato uno studio quasi esasperante per mantenere la coerenza stilistica dell’insieme dall’inizio fino alla fine. E’ stata una mia idea e ha trovato entusiasti sia Salvatore che l’amministratore Marco Laggetta, che non se l’aspettavano.
In una simile scelta si vede anche l’architetto, per lo studio espressivo degli spazi.
Sì, lì ero ancora in una fase da progettista duro e puro. E’ stato un lavoro difficile, anche se posso dirti che, in generale, è meglio disegnare senza la gabbia, che soffro molto. La mia tecnica di disegno tradizionale – quella che spiego ai ragazzi e che comunque ho già superato lavorando in digitale – consiste nel non realizzare la tavola: lavoro invece sulle singole vignette, disegnando ognuna su un foglio A4, per poi montarle nella tavola finita. Questo proprio perché soffro la gabbia, e soffro il dover disegnare “in piccolo” sulle varie vignette all’interno della griglia prestabilita, diversamente da come accade, ad esempio, ad amici come Alessio Fortunato, che è quasi un orafo per la sua abilità nel cesellare le singole vignette. Quindi realizzo le singole vignette in libertà e poi le taglio per adattarle alla tavola: questa operazione poi l’ho portata in Photoshop e adesso non c’è un mio originale a matita. Ad esempio l’ultimo Ragazzi di scorta è stato realizzato interamente in digitale.
Tralasciando gli aspetti tecnici, da dove nasce invece la storia?
La storia è un sentito di Ilaria, non è prettamente autobiografica: lei si rifà spesso a storie che sente, immagazzina tutto e lo rielabora con la sua sensibilità. Nel caso specifico la storia da cui ha attinto era più “canonica”, nel senso che era una ragazza a subire il caso di stalking – nel nostro fumetto invece è un uomo. Quindi l’ha declinata al contrario, con una visione anche coraggiosa e che non ci ha risparmiato critiche. Una volta, a Maglie, in un circolo Arci, sono stato duramente attaccato e tacciato di maschilismo per questa scelta narrativa. In quanto disegnatore ero naturalmente più “esposto”, il lettore comune tende a sottostimare il lavoro dello sceneggiatore e a dare per scontato che chi disegna sia anche l’autore della storia. In questo caso, naturalmente, non era così, la storia e l’idea erano di Ilaria, che insieme a Marco Laggetta ha dovuto in questo caso prendere le mie difese.
Questa cosa accadde anche quando uscì il romanzo di Michael Crichton, Rivelazioni – da cui fu tratto l’omonimo film con Demi Moore e Michael Douglas – pure basato sull’idea di uno stalking ai danni di un uomo. Anche lì lo scrittore fu tacciato di maschilismo.
Sì è vero, fu accusato di sessismo. In realtà, sebbene la persecuzione dell’uomo ai danni di una donna sia più violenta, quella che abbiamo raccontato noi è pure feroce, agisce su un piano più psicologico. Chiaramente sono entrambe distruttive e sono contento di aver potuto raccontare anche questa prospettiva.
Quindi il fumetto ha fatto parlare di sé?
Il fumetto è uscito nel periodo in cui veniva varato il decreto legge sulla violenza sessuale, che istituiva il reato di stalking, voluto dall’allora ministro delle pari opportunità Mara Carfagna. Quindi il tema era attuale e in effetti abbiamo ricevuto gli apprezzamenti anche delle forze dell’ordine. Però, vuoi perché Marco Laggetta era alle prime armi, vuoi perché noi eravamo ancora sconosciuti, l’impatto non è stato immediato ma più spalmato nel tempo e ancora adesso ricevo molti apprezzamenti, che naturalmente mi fanno molto piacere.
All’interno di una storia che è senz’altro drammatica, si nota comunque anche una componente di divertimento: ad esempio per i volti dei personaggi vi siete rifatti a personaggi del cinema.
Sì, è stato un lavoro molto piacevole e creativo. L’idea dei personaggi cinematografici è di Ilaria, che voleva rifarsi a degli attori precisi anche per creare una risonanza in grado di dare maggiore profondità – ad esempio il protagonista Paolo è ricalcato su William Hurt, il che naturalmente spinge a pensare alla sua lacerante prova in Figli di un Dio minore. Fra l’altro è un attore che adoro. Gli altri personaggi, Astrid e Aurelio, si rifanno invece a Cate Blanchett e John Goodman: peraltro tutti e tre sono i miei attori preferiti quindi la componente di divertimento che citavi è stata senz’altro forte.
Nel successivo Nostra Madre Renata Fonte si torna invece a una griglia più tradizionale, anche se i tagli di alcune vignette è come se cercassero sempre di forzare lo schema più classico: in generale noto una forte ariosità, con le splash page che contrappuntano molti passaggi del racconto e “aprono” il fronte visivo, trasmettendo una grande sensazione di serenità, nonostante la vicenda rievocata sia particolarmente drammatica e toccante.
Sì, Antonio Scuzzarella, direttore editoriale di 001 Edizioni, ci ha lasciato liberi e quindi abbiamo potuto permetterci di giocare un po’ sugli aspetti visivi. Personalmente è il lavoro a cui sono più legato anche per il particolare legame che si è instaurato con Viviana e Sabrina Fonte, le figlie di Renata, che ormai sento vicine come se fossero parte della mia famiglia. A monte c’è stato un lavoro di documentazione molto meticoloso, Ilaria ha intervistato Viviana e Sabrina, oltre che amici stretti di Renata, mentre io ho fotografato i luoghi per poterli poi riprodurre nel disegno e mi sono documentato a fondo in modo da avere tutti gli elementi a disposizione per svolgere un lavoro accurato: non è facile perché in occasione di fatti di mafia i familiari tendono a traslocare e a non conservare foto e oggetti che possano rievocare il passato, è una personalissima forma di elaborazione del dolore, che però, dal nostro punto di vista, può rendere più difficile il lavoro di ricostruzione. Quindi dal punto di vista umano è stata un’esperienza che mi ha profondamente toccato e commosso e in alcuni casi abbiamo cercato di riprodurre le sensazioni evocate principalmente dai racconti delle due figlie, come ad esempio l’ultimo saluto di Viviana alla madre prima dell’omicidio, in cui le due, che avevano litigato, si riappacificano: è un momento silenzioso e solidale che se non ci fosse stato avrebbe fatto vivere la ragazza – all’epoca una bambina – con il rimpianto per tutta la vita. Quando ho disegnato quella scena avevo il magone, quindi è stato un lavoro emotivamente anche forte, se ti lasci coinvolgere diventa anche più difficile disegnare. Stilisticamente mi sono poi divertito perché il tratto voleva essere sporco, giocoso, c’era sicuramente quell’idea di trasmettere serenità che dicevi.
Il cambio stilistico rispetto a Un caso di stalking è in effetti evidente, come l’hai gestito?
Era voluto fin dall’inizio: laddove possibile cerco di utilizzare un disegno che si adatti su misura alla storia. Non mi interessa tanto essere riconoscibile quanto funzionale, è una cosa che non mi crea nessun problema e che mi piace. Anche il mio prossimo lavoro adotterà uno stile differente, più francese. Nel caso di Renata Fonte l’idea era quella di usare uno stile da matita “grossa”, che restituisse l’idea del trauma, del dolore sordo che si ritrova anche nella cupezza di alcuni sfondi, anche se poi il gioco sugli spazi permette di inserire una certa ariosità. Ho cercato di immedesimarmi nella situazione di chi affronta la perdita di una persona cara e il naturale filtro di tristezza che inevitabilmente ti accompagna nel tempo. Nei passaggi ambientati nel passato, in cui la mamma è ancora presente, invece c’è un piccolo cambio nella luminosità, le tinte sono più leggere. Naturalmente tutto è stato poi supervisionato e approvato dalla famiglia.
E lo stile viene discusso anche con Ilaria?
Sì, le mostro delle prove su cui discutiamo e lei è sempre molto critica: all’inizio non digerivo le critiche, ma nel tempo ho imparato ad apprezzarle perché ho capito che sono stimolanti e ti spingono a fare meglio, tanto che oggi quasi le cerco. Nel tempo comunque la sintonia lavorativa fra noi due è diventata talmente forte che le sue critiche sono diminuite man mano che aumentava la mia consapevolezza autoriale. Anche per questo il cambio fra i vari lavori è un incentivo a forzare i miei limiti per non adagiarsi sul già fatto.
La scelta di uno stile più tradizionale ha reso la lavorazione meno faticosa rispetto a Un caso di stalking?
In realtà anche qui c’è stato un lavoro particolare, per riprodurre in digitale l’effetto dell’acquerello. Io sono un feticista del digitale e ci tengo che l’effetto sia identico al tradizionale, perché altrimenti non ha senso: gli effetti del digitale sono in sé totalmente anarchici e la mia sfida è usarli in piena libertà, ma nel rispetto dei canoni settati dalla tecnica tradizionale. L’ansia è conoscere perfettamente gli effetti della tecnica tradizionale e cercare di riprodurla in digitale nel modo più fedele possibile.
La sfida è senz’altro bella e difficile, però non ritieni che il digitale debba comunque trovare una sua strada, che dia vita a forme espressive autonome rispetto alla tradizione?
E’ una bella osservazione, ma al momento mi sembra che uno dei pochi che sia stato capace di trovare una sua strada originalissima in digitale sia Emanuele Tenderini con Lumina, dove ha sperimentato perché il colore digitale fosse lavorato non come riproduzione di altre tecniche, ma come fine ultimo, facendo attenzione a che il cartaceo non tradisse questa strada con una cromia a sei colori dagli esiti eccezionali. Una simile tecnica però non è per tutti, fa parte dell’arte di Tenderini ma non è facilmente replicabile – ha anche realizzato dei tutorial, ma quasi nessuno riesce a fare quello che fa lui. Quindi la strada del digitale passa per un sentire molto personale, diversamente da, per esempio, la tecnica dell’acquerello, che è un canone del disegno e quindi ci si può confrontare, anche come faccio io cercando di riprodurla in digitale. Naturalmente questa è la mia visione.
Il cambio di stile è naturalmente possibile laddove ti ritrovi a lavorare con un editore che te lo permette: in realtà molto strutturate – penso alla Bonelli, ad esempio – non sarebbe possibile.
Certo, la Bonelli imporrebbe dei canoni ben definiti ed è comprensibile. Anche lì però mi sento di dire che ci sono autori che derogano. Ad esempio Alessio Fortunato è uno degli autori più riconoscibili in Bonelli e allo stesso tempo meno catalogabili: il suo stile con il tratteggio, fumoso, lo rende quasi un “Roi del tratteggio”. A mio avviso è uno degli autori delle nuove generazioni che ha un quid in più – l’accostamento a un gigante come Corrado Roi è naturalmente un complimento enorme, ma non è piaggeria, ne abbiamo parlato di persona quindi lui sa come la penso. La sua cifra è dunque il tratteggio, ma è qualcosa cui è arrivato nel tempo, per il resto non segue uno schema predefinito, non potrebbe disegnare, ad esempio, Tex perché credo non sia nelle sue corde. Potrebbe fare invece un Dylan Dog e glielo auguro di cuore.
Infine Ragazzi di scorta: qui lo stile cambia ancora, e diventa sempre più difficile “fermarlo” in una categoria precisa. Nel corso della storia cambia il colore, con l’uso di una doppia tonalità, si avvicendano toni ora più leggeri ora più tragici… come avete lavorato per ottenere questo risultato?
Anche in questo caso è stata una scelta precisa, anche se editorialmente abbiamo avuto direttive più stringenti rispetto a un lavoro come Renata Fonte. Il cambio cromatico è un’intuizione comune con Ilaria e serve a far capire che c’è sempre un doppio filone narrativo – questa cosa in parte era già presente anche in Renata Fonte nell’andirivieni fra passato e presente, memoria e attualità. Anche qui succede una cosa del genere, pur considerando che il presente è retrodatato al momento in cui i parenti vengono a sapere dell’attentato: quindi i personaggi sono prigionieri dell’attesa, e si lasciano andare a congetture e quant’altro su cosa sia realmente successo mentre viaggiano verso la Sicilia. L’attesa, così snervante, è resa attraverso il grigio come tonalità dominante. Il tono caffè in cui si rievoca la vita degli agenti vuole invece rappresentare momenti di vita più spensierati, peraltro l’intenzione era di renderlo ancora più leggero, la stampa l’ha incupito un po’ e reso più pastoso. Dopotutto è una storia di ragazzi come noi e infatti il tema di fondo è che il superpotere è la normalità: questi eroi sono gente comune.
In questo senso anche stavolta c’è una ricerca di serenità, che diventa un leitmotiv in grado di legare questo lavoro al precedente.
Sì, e lo stile più particolareggiato nei volti e nelle figure – in contrapposizione a quello volutamente più grossolano di Renata Fonte – è dato anche dalla mia volontà di lavorare su una linea chiara più vicina ai modelli della scuola francese. Per quanto riguarda la continuità, Renata Fonte ha fatto da apripista e – grazie anche all’aiuto che ci ha dato Libera nel pubblicizzarlo – sono molte le vittime di mafia che si sono fatte avanti perché le loro storie fossero raccontate in forma di fumetto. Quindi ci sarebbero addirittura altre cose in cantiere, anche se io tendo un po’ a frenare perché voglio allargare il mio campo d’azione e lavorare a progetti diversi. Naturalmente l’etichetta di “autori sociali” che ormai caratterizza me e Ilaria ci fa molto piacere, ma da disegnatore sento anche il bisogno di raccontare qualcos’altro, come ho già spiegato. In questo senso anche il fatto di lavorare con diverse case editrici rientra nella voglia di variare e fare nuove esperienze. Ilaria ad esempio sta uscendo ora con Sulla collina, pubblicato da edizioni Tunué, una storia “alla Stand by Me”.
Le prossime sfide quali saranno quindi?
Innanzitutto mi sento orgoglioso di far parte di questa generazione di pionieri insieme a gente come Fabrizio Malerba, Alessandro Vitti, Andres Mossa, Alessio Fortunato, Walter Trono, Domenico Sicolo, Emanuele Boccanfuso, Giuseppe Latanza, Fabrizio Liuzzi, Gabriele Benefico e altri che non cito per brevità: tutti insieme rappresentiamo la nuova “scuola pugliese” del fumetto e questo certamente inorgoglisce. L’idea futura è arrivare al mercato francese e coltivo anche il sogno di riprendere la mia matrice originale che è quella americana. Ho già dei progetti in ballo, in alcuni casi sono già in corso contatti con case editrici francesi, non le più grandi, ma quelle medie, che possono fornire un buon trampolino di lancio verso le successive. L’unica nota dolente è che entrare nel mercato francese significa sparire da quello italiano. Il mercato del fumetto da noi è messo bene – in barba alla crisi e agli annunci catastrofici – ma resta legato ai cultori e non permette il necessario trampolino di lancio verso l’estero. Il media in sé dovrebbe inoltre essere adottato di più nelle scuole, come momento ludico.
In effetti oggi le proposte sono molte, ma il fumetto fatica a trovare il ricambio generazionale…
Certamente c’è molta offerta, forse avremmo bisogno di meno case editrici ma più strutturate, con editori che avessero il coraggio di sperimentare di più, senza essere troppo legati agli andamenti delle vendite, in cerca di storie realmente belle. Spero insomma che il fumetto possa continuare a crescere. La sfida di noi operatori e editori è anche quella di continuare a portarlo avanti, pensando a come rideclinarlo per le nuove generazioni, che devono sentirsi rappresentate. In questo senso il digitale non è la panacea di tutti i mali, ma è un’opportunità utile per generazioni che non hanno il rapporto con il cartaceo che abbiamo noi lettori della prima ora. Gli editori sono convinti che sia sufficiente pubblicizzare nuove storie e nuovi formati. Da formatore, sono convinto che l’arte debba essere promossa al di fuori della sua nicchia, attraverso eventi trasversali, intercettando utenza che normalmente non leggerebbe fumetti e che così ne scoprirebbe la bellezza. Diversamente continueranno a uscire nuove testate in edicola, ma il pubblico rimarrà sempre lo stesso.
Come vedi il fermento tarantino sul fumetto, dal tuo punto di vista di operatore culturale e insegnante?
Taranto è da considerarsi un piccolo miracolo fino adesso. C’è un risveglio creativo forte, ma si soffre lo svuotamento dovuto all’esodo di specifiche fasce d’età, che nella scuola mancano: si passa dai quattordicenni agli ultratrentenni, la fascia post adolescenziale e universitaria è andata via e io avverto la mancanza degli specifici stimoli creativi legati a quell’età. Poi per il resto c’è la fortuna – soprattutto nella provincia, più che su Taranto vera e propria – di avvertire molta grinta. La generazione dei trenta/quarantenni si sta dando da fare e sta offrendo nuove proposte alla città. Taranto però non risponde benissimo. Anche se la scuola riesce ad andare avanti, io mi sento tuttora un pioniere che taglia con il machete le felci dell’ignoranza, spiegando cos’è il fumetto, che non è una perdita di tempo, che se vuoi ce la puoi fare, che non siamo dei perditempo. Realtà come la nostra vogliono dimostrare che si può uscire dal binomio Ilva/Marina Militare. Il problema è che facciamo proposte a una piazza praticamente deserta. Sono sincero su questo. Non c’è un boom, chi dice questo è un ottimista. Io ho voluto fortemente che il centro del gruppo regionale fosse a Taranto, quando ci identificano come “scuola di Bari” preciso sempre che siamo su Taranto, Bari e Lecce. Quindi ti parlo da tarantino, orgoglioso di esserlo, che vuole rimanere nella sua città. Ma non mento a me stesso, qui si continua a resistere.
Sei un idealista-realista, insomma.
E’ una bella definizione, e te ne ringrazio. Mi sento come un talent scout perché i ragazzi che intercettiamo sono mossi da un’incredibile voglia di arrivare, in un mondo distratto, dove di norma i giovani sono privi di voglia di sforzarsi e fare gavetta. Continueremo certamente per non so quanto tempo a muoverci nella notte con il lanternino e a cercare quelle poche persone che vogliono farcela, e in fondo è anche una sfida che mi stimola e inorgoglisce.