L’ultimo libro di Roberto Nistri, Taranto e il suo trickster. Tra futuristi e spartacisti (Scorpione, 2015), ripercorre alcuni momenti salienti della storia culturale della città bimare, mostrando le (poche) glorie e le (molte) vergogne succedutesi in riva allo Jonio nel corso del Novecento[1]. La tesi di fondo è che una forza autodistruttiva (“Taranto si ricrea autodistruggendosi”, constata da tempo l’autore) domini le dinamiche culturali tarantine, determinando la sistematica affermazione del brutto. L’analisi culmina nella critica al progetto Taranto spartana, identificato come ultima trovata dello spiritello dispettoso richiamato nel titolo.
Il libro di Nistri è quanto mai denso, e in questa sede non si potranno sviluppare tutte le suggestioni che esso contiene. Ci si concentrerà su un aspetto particolare: quella che l’autore definisce “monumentomania”. La passione per i monumenti e la monumentalità sembra infatti particolarmente radicata nella storia recente di Taranto, al punto che lo stesso progetto Taranto Spartana propone la realizzazione di nuove grandi opere che dovrebbero incidere profondamente sull’immaginario degli autoctoni e, soprattutto, dei turisti, contribuendo a definire un nuovo brand.
Quando si parla di monumenti tuttavia non si può considerare il solo aspetto estetico, come fa l’autore. Una lunga tradizione storiografica ci ha insegnato che, in epoca contemporanea, i monumenti hanno svolto una fondamentale funzione politica. Il grande storico tedesco George L. Mosse, nel suo fondamentale La nazionalizzazione delle masse[2], considera la “monumentalizzazione” come uno degli elementi caratteristici del processo di costruzione dell’identità nazionale e, per questa via, della comunità nazionale. Quest’ultimo prende le mosse nel corso dei processi di unificazione nazionale: i nascenti Stati unitari cercano una legittimazione culturale e, al contempo, un’identificazione diretta con la popolazione. Emerge così il tentativo di “creare il popolo” (“fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani”, disse Massimo D’Azeglio); la monumentalizzazione è uno degli elementi con cui si persegue questo obiettivo. Il monumento infatti è, al contempo, simbolo dell’identità nazionale e veicolo di quest’ultima presso la popolazione. Nel rapportarsi al monumento ciascun cittadino è portato a sentirsi parte di una comunità di destini, la Patria.
Qualche anno più tardi, la rivista Past and Present, promuove una serie di ricerche sul tema del rapporto fra Cultura e Nazione, che sfocia nella pubblicazione di un’opera che segnerà profondamente il campo degli studi culturali e, in generale, aprirà nuove prospettive alla ricerca storiografica. Si tratta de L’invenzione della tradizione[3]. I saggi ivi contenuti pongono l’attenzione su riti, simboli, espressioni dell’identità nazionale inventati di sana pianta, spesso in forma di riscoperta di un passato mitico e dimenticato, a cui quelle forme vengono riferite. Alla base di tutto ciò non vi è solo l’esigenza delle classi dirigenti di creare un’identificazione fra Popolo e Stato, ma talvolta l’invenzione della tradizione è promossa all’interno di contesti marginali e rappresenta una forma di resistenza a processi di disgregazione che minacciano profondamente il nucleo umano in questione. Si risale così a un passato glorioso per motivare la sopravvivenza della comunità esposta a trasformazioni traumatiche.
Nell’affrontare il “caso Taranto” le indicazioni di Mosse e di Hobsbawm-Green sono quanto mai utili. Non solo per spiegare le evoluzioni più recenti delle dinamiche culturali locali, ma anche per cogliere le tendenze che caratterizzano queste ultime nel lungo periodo.
La necessità di creare un’identità collettiva, una comunità, attraverso forme esteriori di identificazione (fra cui i monumenti), è comprensibile alla luce della storia recente della città di Taranto. Tre elementi di fondo hanno caratterizzato quest’ultima a seguito della “grande trasformazione” avviata con l’insediamento dell’Arsenale della Marina Militare nella seconda metà del XIX secolo e culminata nella costruzione (e raddoppio) del siderurgico negli anni ’60-70 del Novecento.
1) Una massiccia e rapida immigrazione. Nel volgere di pochi decenni Taranto diventa, da piccolo borgo di pescatori popolato da poche decine di migliaia di abitanti, una città industriale che già prima della Grande Guerra conta circa 100 mila abitanti e negli anni ’70 raggiunge i 230 mila. Gli immigrati non provengono solo dalle campagne limitrofe, come accade contestualmente ad altre città periferiche interessate soprattutto dallo sviluppo di servizi connessi alla nascita e all’espansione della burocrazia del nuovo Stato unitario, ma dalle province e dalle regioni circostanti. Taranto diventa una città di “stranieri”, che non condividono alcuna tradizione di consuetudini sociali e di espressioni culturali.
2) La conseguenza più evidente dell’immigrazione è la caotica espansione dell’agglomerato urbano, e il correlato abbandono del nucleo storico della città, la Città Vecchia. I “nuovi” e i “vecchi” Tarantini vengono stipati in periferie che crescono a macchia d’olio, con frequente ricorso all’abusivismo. In queste nuove zone gli spazi per la socialità sono ridotti all’osso.
3) Le industrie portano con sé la nascita di una grande classe operaia. Il principale luogo di socialità e aggregazione per una parte significativa della popolazione jonica diventa la fabbrica. Lì si assumono i rapporti caratteristici del capitalismo (a cominciare dalla fondamentale dialettica capitale/lavoro), e al contempo ci si scontra con un modo di vita profondamente diverso da quello tipico delle società rurali da cui gran parte dei lavoratori proveniva. In ogni caso la fabbrica diventa un’esperienza che informa di sé la vita sociale cittadina.
Ciascuno di questi elementi contiene una potentissima spinta centrifuga: il non riconoscimento dell’altro, l’alienazione, il conflitto sociale; questi rappresentano i presupposti di situazioni di tensione (e di vera e propria conflittualità) più o meno intensa ed evidente.
Questo magma potenzialmente esplosivo è stato tenuto insieme, sul piano culturale, attraverso una serie di operazioni che puntavano a comprimere le tensioni emergenti nella costruzione di una comunità fittizia, caratterizzata da alcuni fondamentali elementi dell’immaginario.
Verso questo obiettivo si sono mosse le principali forze dirigenti del territorio. La Marina Militare non ha soltanto plasmato la città in funzione delle sue esigenze, ma ha anche provato a promuovere un’identità collettiva attraverso forme tangibili: per citare le più note, ai due punti opposti di un’ipotetica classifica del gusto troviamo il cosiddetto “monumento ai marinai” e il Castello Aragonese (monumento preesistente, ma ancora oggi gestito e modellato nel tempo dalla Marina). La Chiesa ha contribuito in maniera fondamentale alla creazione di un senso di comunità nelle nuove condizioni della civiltà industriale attraverso alcune operazioni di ampia portata: la realizzazione della Concattedrale, simbolo di una Chiesa proiettata nella “città nuova” (in senso urbanistico e storico), e l’allestimento dei riti della Settimana Santa al di là del Canale navigabile sono i segni più evidenti di tale strategia. Infine, la stessa borghesia locale ha dato il suo contributo alla costruzione dell’identità collettiva: in un momento quanto mai delicato della storia della città, in cui le forze produttive sembravano esprimere l’ambizione (o la velleità) di emanciparsi dalla storica dipendenza dalle grandi iniziative industriali esogene, si compie la ristrutturazione in stile liberty del corso (quasi un richiamo nostalgico alla Taranto dei “galantuomini” di inizio Novecento).
Questi simboli, ancor oggi ben impressi nella coscienza di ciascun tarantino, esprimono un fondamentale significato identitario e, al contempo, rappresentano il tentativo di alcuni gruppi di vedere riconosciuta la propria funzione dirigente in diversi momenti della storia recente della città.
Mentre tali operazioni venivano realizzate tuttavia gli elementi di tensione richiamati sopra esplodevano: la Città Vecchia veniva abbandonata a se stessa e progressivamente svuotata, le periferie dilagavano rendendo quasi impossibile il governo del territorio e facendo emergere sacche di emarginazione esposte al controllo delle organizzazioni criminali, le fabbriche iniziavano a mostrare la propria insostenibilità ambientale e sociale. Non resta quindi che chiedersi se quelle operazioni di creazione di un’identità collettiva non abbiano svolto una funzione propriamente mistificatoria.
La Taranto immaginaria e quella reale sono entrate in contraddizione da tempo, ma oggi l’attrito è massimo. I tre elementi che hanno caratterizzato nel lungo periodo la storia della città sono infatti degenerati nel loro opposto: siamo di fronte a fenomeni di emigrazione di massa (soprattutto di giovani qualificati) di implosione sociale e strutturale di intere aree della città, di disoccupazione dilagante.
La domanda da porsi in relazione a questi problemi, e assumendo la lezione del passato, è: si possono fronteggiare i rischi di dissoluzione a cui è esposta Taranto con operazioni che, inventando un’ulteriore tradizione, ancora una volta si limitano ad agire sull’immaginario proiettando l’illusione di una comunità coesa? O forse è venuto il momento di affrontare quelle sfide con concretezza, mobilitando tutte le forze vive della città? Dalla risposta a questi interrogativi passa il futuro di Taranto.
[1]Sullo stesso argomento v. anche Roberto Nistri e Elisabetta Rizzo, Un giornale, una città. La Voce del Popolo, giornale di Taranto 1884-1976, Taranto 1987
[2]George L. Mosse, The Nationalisation of the Masses: Political Symbolism and Mass Movements in Germany from Napoleonic Wars through the Third Reich, New York 1975. La più recente edizione italiana è del 2009.
[3]Eric J. Hobsbawm and Terence Ranger (edts.), The Invention of Tradition, Cambridge 1983. La più recente edizione italiana è del 2002.
* Rielaborazione dell’intervento tenuto presso la libreria Gilgamesh di Taranto il 10/1/2015, in occasione della presentazione del libro.