Con l’inizio della nuova settimana le mobilitazioni dell’appalto Ilva sono riprese. A questo proposito riceviamo e pubblichiamo un contributo di Francesco Brigati, RSU della Fiom. Dopo l’intervento di Fabio Boccuni il dibattito resta aperto: inviamo chiunque volesse dire la propria su questa intricata vicenda a inviarci il suo contributo.
Taranto non è come Terni, e in quest’ultime ore la nostra città sta mostrando la sua parte peggiore: quella che tende sempre più a dividersi, ognuno rinchiuso nella sue verità, incapace di guardare oltre il proprio orticello e di individuare un percorso comune con chi difende legittimamente il proprio posto di lavoro, come stanno facendo i lavoratori dell’appalto Ilva. Sono trascorsi inesorabilmente due anni dal sequestro preventivo degli impianti e, ad oggi, pochi hanno intravisto la possibilità che Taranto potrebbe avere, se in momenti come questi si trovasse una sintesi , un’occasione per poter uscire dal pantano dove da ormai da troppi anni siamo tutti intrappolati.
Taranto non é come Terni anzitutto perché non ha più una una classe operaia capace di elaborare un pensiero autonomo rispetto alla fabbrica dove lavora e alla città dove vive. Lo ha smarrito nel tempo, e la data che ha creato i presupposti per cancellare la sua identità è quella dell’inizio della privatizzazione. Nel 1995 i Riva, una volta acquistato lo stabilimento siderurgico, avviarono un rapido ricambio generazionale, evitando di fatto un “passaggio di consegne” fra generazioni operaie, non solo dal punto di vista della professionalità, ma sopratutto dal punto di vista della storia politica e sindacale, che negli anni precedenti aveva portato quella classe operaia “in paradiso”. Il ricambio generazionale è avvenuto con contratti di formazione, e giocando sul ricatto occupazionale ha determinato l’annullamento della giovane classe operaia, impoverendo le file delle organizzazioni sindacali. Molti rifiutavano la rappresentanza perché, se per esempio si fossero iscritti alla FIOM, non avrebbero mai visto un contratto a tempo indeterminato.
Taranto non è come Terni perché di fronte ad una mobilitazione dei lavoratori la città non ha risposto in maniera compatta. Anzi, qualcuno è arrivato persino a rivolgersi alle forze dell’ordine e al Questore, chiedendo loro di adempiere ai loro doveri, fra i quali l’individuazione dei responsabili dei blocchi stradali, citando “irresponsabilmente” l’articolo 16 della Costituzione. A Terni la lotta è stata, nei toni e nelle mobilitazioni operaie, molto più dura rispetto a quella dei lavoratori delle ditte di appalto Ilva; gli operai dell’Ast sono arrivati addirittura a bloccare gli svincoli autostradali. Alla luce di ciò mi chiedo: come mai si solidarizza con i lavoratori dell’Ast di Terni e non lo si fa con quelli dell’Ilva di Taranto? Io credo che si sia venuta a formare una frattura ormai insanabile tra “l’ambientalismo radical chic” tarantino e la nuova classe operaia. Non è stato sempre così. Nel recente passato queste componenti hanno trovato anche punti di contatto, di elaborazione comune, per esempio attraverso un percorso libero, democratico e aperto come quello intrapreso anni fa da Altamarea. Altamarea ha avuto grandi momenti di elaborazione collettiva, e un grande pregio su tutti: quello di aver unito sotto un’unica sigla tante associazioni ambientaliste, e di essere stata capace di interloquire costantemente con gli operai disponibili a ragionare, in tempi in cui era difficile farlo, su come migliorare la fabbrica.
Taranto non è come Terni perché quest’ultima non vive la stessa drammatica situazione dal punto di vista sanitario e ambientale. Non che l’acciaieria a forni elettrici attiva nella città umbra non crei problemi dal punto di vista ambientale. Recentemente sono stato a Terni, ospite di un convegno organizzato da Rifondazione Comunista dal titolo “L’inquinamento nella conca ternana”. E’ stato un dibattito molto interessante, al quale hanno partecipato ambientalisti e operai, che si sono confrontati, a volte con posizioni diverse, ma sempre mostrando un certo “rispetto” per i lavoratori della fabbrica. Non è un caso che la prima cosa che trovi davanti appena arrivato alla stazione di Terni è una enorme pressa, simbolo del ruolo e del protagonismo della classe operaia in quella città. Taranto non è come Terni perché questa non ha mai avuto Cito sindaco.
Taranto non è come Terni perché i “prenditori” tarantini non hanno mai fatto gli imprenditori: al massimo si sono ritagliati un ruolo marginale dentro lo stabilimento siderurgico gestendo le pulizie industriali, senza mai provare il salto di qualità nel settore dove operavano. Lo hanno fatto sfruttando i lavoratori, facendoli lavorare in condizioni precarie, con bassi salari e con scarse condizioni di sicurezza. La trattativa al ribasso con il committente, l’Ilva, si basava sulla riduzione del prezzo della commessa, ottenuta togliendo diritti e reddito ai lavoratori. Nessuna solidarietà pertanto ai “prenditori” ionici, che come primo atto dopo la messa in amministrazione straordinaria di Ilva hanno dichiarato la messa in libertà di tremila lavoratori. A questo punto però mi domando: cosa avrebbero dovuto fare i lavoratori e i sindacati di fronte a questa situazione? Per una volta “restiamo umani”, e piuttosto che invocare l’intervento della polizia per reprimere le mobilitazioni operaie, fermiamoci e proviamo ad ascoltare chi vive il dramma della perdita del posto di lavoro.
L’accusa che viene rivolta ai lavoratori e ai sindacalisti è sempre la stessa: e perché per l’ambiente e la salute non siete scesi in piazza con noi?
Questo, come ho già detto, non è vero. Nel 2008 e nel 2009, alle grandi marce di Alta Marea, la parte più consapevole del movimento operaio jonico c’era. Dopo qualcosa si è interrotto. Il movimento ambientalista si è spaccato al proprio interno, la parte più radicale ha avuto la meglio e ha imposto la linea della chiusura definitiva della fabbrica. Come si fa a chiedere a un lavoratore di scendere in piazza per chiedere la chiusura della fabbrica in cui lavora? Il movimento ambientalista jonico farebbe bene a riflettere sulle sue scelte recenti, e a intraprendere una seria autocritica: se il suo obiettivo è eliminare l’inquinamento industriale, come pensa di farlo senza il sostegno di quella parte di città che vive la fabbrica quotidianamente? D’altra parte, agli operai non si può chiedere di immolarsi per la causa comune, non gli si può chiedere di rinunciare al posto di lavoro (tanto più in una fase di drammatica crisi occupazionale com’è quella che la nostra provincia e l’intero paese stanno attraversando). Non è dai presunti atti eroici che verrà il cambiamento, ma dalla costruzione di programmi condivisi, elaborati a partire da un reciproco riconoscimento e rispetto.
Personalmente continuerò a battermi in qualunque sede per non perdere un solo posto di lavoro, consapevole del fatto che, così com’è, quella fabbrica non può andare avanti per molto. Bisogna che i lavoratori ritornino protagonisti dentro e fuori quello stabilimento, è possibile farlo ricostruendo una nuova coscienza di classe, capace di farsi promotrice di un reale cambiamento. Pertanto ad ogni vertenza operaia devono emergere, sempre più forti, gli aspetti legati alla questione ambientale e sanitaria. Questo è il contributo che il movimento operaio può e deve dare alla soluzione del “caso Taranto.
Un’altra Taranto è possibile, costruiamola insieme.
Francesco Brigati
RSU Fiom Cgil