Vedremo se Trump farà davvero quello che ha promesso in campagna elettorale. Intanto, a sinistra, si registra una certa soddisfazione per la nuova ventata di protezionismo che spira da oltreoceano. Come se le politiche commerciali seguissero lo schema binario con cui si è soliti descrivere il quadro politico, e non gli interessi contingenti di determinati settori economici. Come se, nel frattempo, non si fosse registrato un ribaltamento nelle tradizionali posizioni sul tema, con la Cina a fare da alfiere al libero scambio e i paesi sviluppati pronti ad innalzare dazi e protezioni.
Ma le questioni che la sinistra dovrebbe porsi sono altre. Una guerra commerciale fra sistemi avanzati ed emergenti oggi è auspicabile? Che effetti avrebbe sul mondo del lavoro e sulle relazioni internazionali?
E soprattutto, farebbe bene a prestare una qualche attenzione a un nodo politico non del tutto secondario. In Gran Bretagna e negli USA si è materializzato un “blocco protezionista” che mette insieme lavoratori impoveriti, ceti medi declassati e gruppi imprenditoriali in difficoltà, orientandoli verso gli interessi di fase dei gruppi monopolisti. Probabilmente questa formula la si vedrà in azione a breve anche in Francia e in Germania. Si tratta di una nuova manifestazione della destra, adeguata ai nostri tempi, in particolare alla crisi che ha sconvolto il vecchio paradigma liberista.
In breve, la critica al liberismo di questa nuova destra tralascia completamente gli aspetti sociali (precarizzazione del lavoro, crollo dei salari ecc.) e le politiche di austerità, centrando tutta l’attenzione sull’immigrazione e sulle politiche commerciali. Il messaggio è: se stiamo male è colpa degli altri, immigrati o imprese estere, comunque nostri concorrenti. In questo modo si prova ad ottenere il risultato che la destra ha sempre perseguito: compattare la comunità nazionale al di là delle differenze di classe.
Di fronte a questa formula la sinistra o è in grado di elaborare una visione autonoma (capace di aggregare su altre basi un blocco sociale) o finirà stritolata nell’impatto fra destra liberista e destra protezionista. A giudicare dalla confusione che trapela da tanti commenti, non c’è da essere molto ottimisti. Eppure margini per giocarsi la partita ce ne sarebbero, partendo da una lettura della crisi basata su dati di realtà.
Al principio della crisi, le economie avanzate hanno subito un drammatico crollo della domanda interna. I governi (in particolare quelli europei), ispirati dai principi della destra liberista, hanno cercato di rilanciarle attraverso operazioni che gli economisti chiamano di “svalutazione interna”: politiche di austerità e precarizzazione del lavoro. A ciò si sono sommati i sostegni agli investimenti dei grandi gruppi, soprattutto nel campo dell’innovazione. In sostanza, si è provato ad agganciare la crescita dei paesi emergenti, alimentata soprattutto dall’enorme mole di denaro pubblico mobilitata dalle autorità cinesi.
Questo ha prodotto due effetti: l’ulteriore arretramento della domanda interna e un accentuato dualismo dei sistemi produttivi (settori innovativi orientati all’export, da una parte; settori “tradizionali”, penalizzati dal declino della domanda interna, dall’altra), con gli effetti sociali che ben sappiamo.
Oggi anche quel meccanismo, che aveva garantito una boccata di ossigeno a una parte delle economie europee, si è inceppato. Mentre non si registra nessuna reale messa in discussione delle politiche fin qui seguite dai governi europei, la crescita della Cina è entrata in una nuova fase. Pechino punta a una ristrutturazione complessiva del suo sistema economico, che inevitabilmente passa da un rallentamento dei ritmi e da una riconfigurazione dei settori. Di conseguenza, le imprese europee oggi fanno più fatica a trovare sbocchi in Cina, mentre le imprese cinesi cercano di “scansare” la flessione della domanda interna dedicandosi maggiormente all’export.
E’ questa la dinamica che alimenta le frizioni cui oggi assistiamo in campo commerciale, e che sta alla base del ritorno in auge del protezionismo. In gioco infatti non ci sono più soltanto gli interessi delle piccole e medie imprese che operano prevalentemente sul mercato interno, ma quelli delle multinazionali, danneggiati dalle nuove circostanze. Le stesse multinazionali che, fino a un momento prima, si sono giovate delle “svalutazioni interne” e dei sostegni dei rispettivi governi per estendere la loro presenza commerciale nei paesi emergenti, e che ora reclamano dazi.
Ora, si può dare torto alle autorità cinesi quando denunciano le restrizioni artificialmente imposte alle economie europee dalle politiche seguite fin’ora dai rispettivi governi? Si può assecondare, viceversa, l’interesse di chi ha sostenuto una politica di libero scambio (e di austerità e di precarizzazione) fin quando gli conveniva, convertendosi subito dopo al protezionismo?
Oggi la sinistra ha il compito di far emergere queste contraddizioni nel campo avversario, tornando a proporre una via d’uscita dalla crisi basata su nuove politiche espansive nei paesi avanzati (a cominciare dai componenti dell’Unione Europea) e su relazioni internazionali improntate alla cooperazione politica e commerciale con le aree emergenti. La sinistra europea non può dimenticare che queste realtà sono il frutto di quei movimenti di decolonizzazione che in altre epoche essa ha attivamente sostenuto, e che sarebbe incomprensibile abbandonare a se stessi proprio in questa fase. Così come non può trascurare che i gruppi subalterni, che essa vorrebbe rappresentare, hanno tutto da perdere da un neoprotezionismo che non mette in discussione la precarietà e i salari bassi, e anzi li assume come elementi di una politica prona agli interessi dei grandi gruppi industriali.
Se vuole tornare ad avere un ruolo nel suo tempo, la sinistra deve interrogarsi seriamente su questi temi. Il tempo a disposizione è scarso: la valanga della nuova destra protezionista avanza e presto potrebbe travolgere l’Europa.