Giornate intense per il mondo del lavoro in riva allo Jonio. La crisi Ilva, culminata di recente in un nuovo sequestro, la spada di Damocle dei licenziamenti che pende sulla testa dei lavoratori di Teleperformance e la liquidazione della Taranto Container Terminal rappresentano solo la punta di un iceberg che mostra i connotati della desertificazione produttiva. Una spirale che rischia di inghiottire l’intero tessuto economico della nostra provincia, trasformando l’area jonica in una landa desolata di disoccupazione e disperazione. Un quadro che sembra rendere non più rimandabile l’apertura di una nuova stagione di lotta per il lavoro: una nuova “vertenza Taranto” che ponga con urgenza la necessità di un’inversione di rotta nelle politiche economiche nazionali ed europee. Prima che pezzi interi di Italia, fra cui la provincia jonica, vadano alla deriva.
Di questo e di altro abbiamo parlato con Giuseppe Massafra, giovane segretario generale della CGIL di Taranto.
Partiamo dalla “madre di tutte le vertenze”, quella che riguarda l’Ilva. Il tragico incidente in cui ha perso la vita l’operaio Alessandro Morricella apre una serie di incognite inquietanti sulla gestione dello stabilimento. L’opera di ammodernamento procede a rilento non solo per la scarsità di risorse finanziarie, ma anche per la mancata definizione di una struttura manageriale all’altezza della sfida. Su tutto questo è piombato, come un fulmine a ciel sereno, il sequestro di Afo 2. In tali circostanze l’ecocompatibilità dello stabilimento è un obiettivo ancora perseguibile o va considerata ormai una chimera?
Se dovessimo considerare una chimera l’obiettivo del processo di eco-compatibilizzazione dello stabilimento vorrebbe dire che avremmo scelto di rinunciare all’ambizioso obiettivo di costruire un’idea di modello di sviluppo nuovo, capace di conciliare diritti fondamentali e irrinunciabili quali lavoro, salute e ambiente; un modello capace di dimostrare che ci si può liberare dalla schiavitù di un turbo-capitalismo amorale che arreca sacrificio in nome delle immorali ragioni del profitto, senza tuttavia rinunciare ad una prospettiva di sviluppo basato anche sulla presenza del settore industriale. In tal senso la parola chiave è innovazione.
È evidente che quello che è accaduto nei giorni scorsi, il grave incidente che ha causato la morte del giovane Alessandro Moricella, impone la necessità innanzitutto di fare chiarezza su quanto accaduto, individuare le responsabilità e quindi adottare ogni provvedimento utile perché si possa continuare a lavorare nelle condizioni di massima sicurezza. Quest’ultima è una priorità inderogabile che fa il paio con la necessità di continuare nel processo produttivo, che è e resta uno dei fattori determinanti per continuare nel difficile percorso di ambientalizzazione nei tempi previsti.
In una situazione di grande incertezza, in cui non vi è riferimento ad alcuna prospettiva industriale, in cui non si affronta il tema della capacità produttiva dello stabilimento, in cui arrivano segnali molto preoccupanti dall’interno dello stabilimento, noi siamo convinti che per salvaguardare questo sistema produttivo (composto anche dalle professionalità espresse nel vasto sistema dell’appalto) e la realtà territoriale che lo comprende si debbano compiere scelte coraggiose che puntino sulla trasformazione di un modello di sviluppo basata sulla qualità e sull’innovazione.
Invitiamo dunque il Governo (oggi impegnato nell’amministrazione della Società) e gli altri soggetti istituzionali presenti al tavolo ad aprire un grande confronto sul piano industriale dell’ILVA, che chiarisca definitivamente quale sia la prospettiva industriale dello stabilimento, la sua collocazione sul mercato mondiale, la sua capacità produttiva dentro il processo di ambientalizzazione. Una discussione, insomma, che assuma la sfida del cambiamento e chiarisca definitivamente se un futuro per lo stabilimento esiste davvero.
Evidentemente il nodo fondamentale della partita Ilva è quello che riguarda la proprietà. Dalla recente visita di una delegazione della Fiom al Parlamento Europeo è emerso che la trattativa con la multinazionale Arcelor Mittal continua. La prospettiva di acquisizione di Ilva da parte di un concorrente diretto espone tuttavia l’azienda a rischi di notevole portata. C’è un’alternativa alla cessione ad AM?
Intanto prima di parlare di acquisizione di ILVA da parte di Arcelor Mittal, occorrerebbe accertare le reali intenzioni della multinazionale. Dovrebbe essere chiaro che qualsiasi cessione a privato non possa prescindere da due questioni essenziali: la certezza che chiunque acquisisca lo stabilimento deve essere realmente intenzionato alla produttività dello stabilimento e non alle quote di mercato; il mantenimento della produzione, con l’ imperativo categorico di salvaguardarne la compatibilità col territorio.
Parlo pertanto di cose concrete. Fino ad allora per noi lo Stato italiano rimane il punto di riferimento per la conduzione dello stabilimento e sua la responsabilità nelle scelte e purtroppo anche negli accadimenti.
La morte di Morricella è un lutto di Stato, giusto per intenderci.
La seconda realtà produttiva per numero di addetti della provincia, il call center Teleperformance, è minacciato dai piani di delocalizzazione dell’azienda. La facoltà per le imprese di trasferire le proprie attività in funzione del costo del lavoro produce esiti drammatici: i lavoratori si trovano di fronte al dilemma fra perdere il lavoro o accettare salari sempre più bassi. Come si esce da questa spirale?
La vertenza Teleperformance è il vetrino tornasole che conferma il grado di imbarbarimento del mercato del lavoro, di una logica che, invece di agire sul sistema degli appalti e del mercato al ribasso con call-center da sottoscala, agisce esclusivamente sulla voce “lavoro”.
In questa vertenza, come CGIL, ci stiamo mettendo l’anima e ce la stanno mettendo soprattutto i lavoratori. Tremila uomini e donne che oggi vivono la fase più delicata della loro vita occupazionale.
Le cause sono nelle ragioni sin qui esposte ma anche in una trattativa difficile, che vede troppo distanti le posizioni del sindacato da quelle aziendali. In questa circostanza i lavoratori, già divisi per la propria condizione in lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, certamente si trovano di fronte al dilemma fra perdere il posto di lavoro o accettare salari sempre più bassi.
Ora però la nostra grande mobilitazione territoriale, faticosa ma costante, ha bisogno di fare un salto di qualità che investa le responsabilità di chi ha consentito la barbarie di questo mercato. Per tale ragione, anche in questo caso, il Governo che sinora si è affrettato sulla cosiddetta riforma della scuola o sul Job Acts, avrebbe potuto quanto meno mettere regole certe su un mercato in cui funziona la prassi “suicida” del massimo ribasso, dell’offerta economicamente più vantaggiosa, senza badare al ribasso dei diritti, dei salari o delle condizioni di lavoro di queste aziende.
Una vertenza molto dura in cui abbiamo mantenuto dall’inizio una posizione coerente: la soluzione è nel rispetto del CCNL e del recupero delle spettanze sospese nel 2013. È una vertenza complicata, ma riteniamo indispensabile mantenere la nostra posizione per fare in modo che il nostro territorio, anche su questa vertenza, non continui ad essere oggetto di ricatti.
La liquidazione della Taranto Container Terminal mette in discussione un ulteriore asset dell’economia locale, il porto. Taranto è destinata a vedere definitivamente precluse le prospettive di sviluppo legate al mare?
Uno dei fattori strategici per lo sviluppo del territorio è rappresentato dalle potenzialità che questa grande infrastruttura può esprimere come porta di accesso verso l’Europa dal bacino del Mediterraneo. Oggi, dopo il disimpegno da parte del terminalista che gestiva il traffico container, le attività sono tutte ferme e il Porto appare una landa desolata, pregiudicando così l’occupazione di centinaia di lavoratori tra diretti e indiretti.
Anche questa importante infrastruttura, oggi in crisi, ci dice come i drammi di questo territorio non si circoscrivono all’interno dei confini di questa provincia, ma si ripercuotono in tutto il Paese.
Oggi, la discussione sul Porto di Taranto, che non a caso si svolge presso Palazzo Chigi, secondo noi deve riguardare tre questioni principali: occupazione, traffici e investimenti.
Continuiamo a sostenere che il Porto di Taranto può essere uno dei driver di sviluppo del territorio, ma perché ciò si realizzi è importante prefigurare un futuro di lavoro per gli addetti. Gli ammortizzatori sono importanti, ma solo come strumento per garantire il tempo necessario per individuare la migliore soluzione.
I lavori di infrastrutturazione a Taranto rendono inoltre il Porto una fondamentale occasione di sviluppo per il Paese. È dunque necessario favorire volumi di traffico container adeguati alle potenzialità effettive, che potrebbero essere quelle proprie di uno dei più importanti Porti d’Europa.
I ritardi accumulati in questi anni per l’adeguamento infrastrutturale oggi sono superati dalla definizione di un programma di lavori, frutto di investimenti pubblici, ben definito. Ma per garantire davvero la prospettiva del Porto di Taranto occorrono investimenti anche da parte di quei privati seriamente interessati, e serve un livello di discontinuità rispetto alla gestione svolta finora. I ritardi non sono il frutto di una congiunzione astrale avversa, sono responsabilità di precise gestioni apicali che oggi però si ripercuotono solo sulla città e i suoi lavoratori.
Un settore di cui poco si parla, ma che sta risentendo in maniera drammatica della crisi, è l’edilizia. A Taranto la situazione di questo comparto è aggravata da una dinamica demografica in atto da tempo: la continua diminuzione della popolazione per via di flussi migratori sempre più intensi, che riguardano soprattutto i più giovani. Mentre è in discussione il nuovo Piano Urbanistico Generale, c’è chi propone varianti per ampliare ulteriormente la pianta della città (si veda il cosiddetto “Piano Cimino”); d’altra parte, c’è invece chi suggerisce di puntare sul recupero e la valorizzazione dell’esistente. Quale linea di sviluppo dovrebbe prendere l’urbanistica a Taranto per rispondere alla crisi dell’edilizia e al progressivo invecchiamento della popolazione?
L’edilizia da sempre funziona come un settore anti-ciclico, capace di invertire le tendenze di una crisi produttiva ed economica. Anche nella nostra piattaforma rivendicativa presentata confederalmente all’attenzione del Tavolo Interistituzionale per Taranto, la voce appare, ma sotto un altro principio legato allo sviluppo.
Crediamo che Taranto, per ragioni demografiche, urbanistiche, sociali e di decoro non possa espandersi più di tanto, perché il rischio non è soltanto quello di avere una città brutta, ma quello di reiterare un errore già compiuto negli anni della grande industrializzazione del territorio.
Si svuotarono i luoghi della storia e della memoria della città, e si riempirono gli spazi (a volte anche in maniera molto discutibile) delle periferie, che tali sono rimaste in questi anni: senza fogna, senza contratti di servizio relativi ai trasporti o alla pulizia aggiornati alle nuove esigenze, senza presidi civici adeguati.
La sfida più importante pertanto è ricominciare da dove si è perso e, come dimostrano le stime degli osservatori locali e nazionali dell’edilizia, riprogrammare uno sviluppo del settore che sappia recuperare, valorizzare e riqualificare il patrimonio esistente.
Per noi i centri storici, a cominciare dalla città vecchia di Taranto, sono il luogo per riprogrammare questo sviluppo. E, nel caso dell’isola, è innegabile che insieme allo sforzo di impresa, a un adeguato lavoro di progettazione che caso mai torni a prendere in considerazione e riaggiorni il Piano Blandino, c’è bisogno soprattutto del coraggio e della voglia di fare della Pubblica Amministrazione che detiene, oltre alla responsabilità sugli assetti sociali della comunità, anche il 70% del patrimonio immobiliare.
La luce sulla Città Vecchia di Taranto, dal potenziale inestimabile, si riaccende dunque con azioni che sfidino lo status quo, che liberino patrimoni di bellezza e di storia dall’illegalità diffusa, che restituiscano la città alla comunità dei residenti partendo ad esempio da diritti insopprimibili e primari, come l’acqua, la fogna, la pulizia, il decoro e la sicurezza.
Tornando al tema più generale dell’edilizia, come abbiamo indicato nel Piano del Lavoro della CGIL, questo significherebbe l’apertura di cantieri e dunque aumento dell’occupazione, ma significa anche credere in una azione congiunta di recupero non solo delle pietre ma anche delle persone che le animano.
Generare lavoro passa anche dalla consapevolezza che questo Paese ha bisogno di essere tenuto in ordine, lo stiamo dicendo da tempo. Io penso che prendersi cura del territorio, qui da noi, significa anche intervenire per risanare le aree sottoposte per anni agli agenti inquinanti di derivazione industriale. Il tema delle bonifiche a Taranto non è quindi solo un esigenza di riscatto della popolazione: può diventare anche una straordinaria occasione di sviluppo e occupazione, che deve procedere parallelamente al processo di ambientalizzazione dei siti industriali.
O ancora, intervenire sull’eterna emergenza del dissesto idrogeologico che riguarda il nostro territorio e che negli anni ha prodotto, soprattutto nel versante occidentale, danni a colture, e gravi perdite umane.
Partire dalla riqualificazione del territorio rappresenta la straordinaria opportunità di offrire risposte ai bisogni della popolazione e costituisce occasione di sviluppo aggiuntivo (servizi, attività commerciali, turismo, attività culturali, etc) ed eviterebbe la tendenza a costruire nuove periferie vuote e ancora una volta “isolanti”.
Se non vogliamo rassegnarci alla completa scomparsa dei giovani dal nostro territorio, andrebbero affrontati seriamente due temi di cui molto si discute in questa fase: Cultura e Formazione. Il decreto del 5 gennaio 2015 (convertito in legge il 4 marzo) ha individuato il primo di questi campi come asse su cui investire per rilanciare la città; tuttavia al momento neanche un centesimo è stato stanziato per passare dalle parole ai fatti. Nel campo della Formazione, si continua ad assistere all’impoverimento dell’offerta formativa del Polo Universitario Jonico (da ultimo si registra la chiusura del corso di Beni Culturali). Come dovrebbe essere impostata una strategia seria di valorizzazione della Cultura e della Formazione a Taranto?
Taranto a volte è capace di affollare le piazze, di gremire concerti, e poi dimostrarsi assolutamente distratta, se non addirittura indifferente, di fronte a fasi cruciali che determinano il suo futuro.
E il futuro si declina solo con i temi che lei mi pone in questa domanda. Perché quella dei giovani è la scommessa più importante. Il seme che oggi piantiamo in quella promessa di domani.
Distrattamente questa città ha già collezionato black out. Ha visto progressivamente diminuire il numero di asili nido comunali; ha visto cancellare il corso di Maricoltura (e se non si parla di mare a Taranto, dove?), e ora quello dei Beni culturali. In questo momento assiste sonnacchiosa al tribolato percorso del suo Museo; rinuncia, con la complicità di amministrazioni distratte, alla qualificazione e valorizzazione dei suoi centri storici; dimentica il valore della sua cultura rurale e marinara; coniuga la parola “turismo” solo in chiave spot a iniziative estemporanee spesso lasciate alla passione di privati o movimenti di cittadini; non solo non intercetta fondi infrastrutturali europei per costruire reti museali o riqualificare patrimonio architettonico e storico esistente, ma spesso quello che intercetta lo perde con buona pace della cittadinanza.
Ecco perché la cultura va ripensata non come astrazione accademica alta: va rivista come investimento quotidiano, spicciolo e costante che si intreccia con l’azione di tutti. Nelle scuole, nella responsabilità sociale e culturale delle imprese, nei luoghi di lavoro.
E l’investimento più importante da proporre deve riguardare proprio la capacità di trasformare la nostra comunità, notoriamente impermeabile ai temi della cultura, in una realtà invece porosa capace di abbandonare anche falsi miti culturali e storici: da Filonide ad una “spartanità” senza costrutto.
Anche noi, come sindacato, ci siamo interrogati su questo, e abbiamo compreso che per arrivare al cuore del problema bisognava investire su sementi culturali di cui forse non vedremo neanche i frutti, ma che presto o tardi germoglieranno e cambieranno davvero le sorti di questo territorio.
E’ un investimento che si fa con l’Università, con la fruizione dei nostri Beni Culturali, con una cultura della legalità e del rispetto, con la tutela del lavoro, quello buono, rispettato, di qualità e formando la comunità a tutto ciò. Ma soprattutto liberando la comunità dal bisogno. E’ difficile ricevere collaborazione da chi non ha il minimo indispensabile per campare.
In questi giorni abbiamo celebrato la nostra Conferenza di organizzazione. Una sorta di Stati Generali della CGIL, che oggi più che mai si interroga su questi temi partendo dal cambiamento che essa stessa deve compiere per non essere travolta dagli eventi.
Più di cento anni di storia che chiedono responsabilità, per nostro conto. Anche quella traccia culturale oggi chiede di essere rivista partendo dai diritti dei cittadini. E su questo, come CGIL di Taranto, intendiamo non cedere il passo a niente e nessuno.
Commentando l’ultima enciclica di Papa Francesco, l’arcivescovo Filippo Santoro ha concluso auspicando il superamento delle divisioni che caratterizzano la nostra comunità attraverso il perseguimento del “bene comune”. La Cgil come risponde a questo appello?
La “Laudato Si” è l’enciclica della responsabilità, della palese affermazione di concetti che fino a ieri rimanevano pronunciati solo nei dibattiti di una parte spesso considerata reazionaria o resistente al cambiamento.
E’ una esortazione al cambiamento ma anche alla costruzione di nuovi modelli di sviluppo. Un’ottima cornice per noi che su questo lavoriamo 365 giorni l’anno in quell’idea di “Primo Maggio Sempre” che è la traccia del nostro impegno.
Ecco perché nel mio commento all’intervento di Mons. Santoro sul tema, pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno, provo a rafforzare e dare sostanza a quell’enciclica coniugandola ad una esigenza tutta locale di bonifica degli animi e delle posizioni in campo.
Auspico un corpo unico che si muova in una direzione comune, e non in braccia, gambe o menti isolate che sperperino tanto potenziale. Non ora che Taranto è una polveriera sociale che rischia di implodere e travolgerci tutti. Non ora che si gioca con il destino di migliaia di lavoratori. Non ora che, di fronte ad un modello di sviluppo tutto da costruire, si rischia di girare tutto in caciara, sceneggiata e “benealtrismo”.
Ecco perché ho apprezzato l’intervento di Mons. Santoro, ma lo ho anche esortato a guardarsi intorno, evitando la nascita di altre “isole”.
Taranto è invece un arcipelago di buone cose costruite negli anni. Tra queste c’è la CGIL con la sua forza, la sua storia, e un patrimonio di lotte e conquiste che molti hanno dimenticato – o strumentalmente preferiscono far finta di aver dimenticato. Ecco perché serve lavorare insieme per far tesoro dell’esperienza di tutti.
E lavorare assieme significa, senza incorrere nel pericoloso vortice delle primogeniture e dei protagonismi, far tesoro di quei talenti, di quelle esperienze che esistono in questa provincia, ma che spesso finiscono ingurgitate nelle spire dell’uroboro: il serpente mitologico che si morde la coda e soffoca la polis, perché si nutre di se stesso, uccidendosi un po’ per volta.
La democrazia è forma della politica e la politica è la sostanza della democrazia. Ma, se viene a mancare la sostanza, la forma si riduce a vuoto involucro, a simulacro ingannatore, a improduttiva sceneggiata.
Noi lo ribadiamo: siamo pronti ad essere sostanza. Come sempre. Siamo disposti a lavorare al testo ecologico proposto da Santoro, a patto che non sia ancora una volta la tavola imbandita per la visibilità di qualcuno ma un luogo serio in cui lavorare al progetto di futuro di questa terra.