Il nostro viaggio in tre puntate nel mondo del lavoro si conclude con una delle realtà più controverse: quella dei call center.
Una ricerca condotta dall’Istat e dall’Isfol certifica che gli addetti ai call center sono oggi in Italia i lavoratori che stanno attraversando la crisi con il maggior senso di insicurezza ed insoddisfazione. Nel nostro Paese sono 2.270 le aziende di call center e ci lavorano circa 80.000 donne e uomini. Nonostante sia un settore in crescita, sia in termini di fatturato che di addetti, la mancanza di regolamentazione degli appalti ha creato una competizione sleale sul mercato: i lavoratori sono alla totale mercé di un sistema che permette che le commesse vengano tolte ed assegnate su criteri che esulano totalmente dal fattore lavoro.
Nella provincia jonica gli operatori di call center sono circa 4.000, sparsi tra le varie micro sedi e le imprese più grandi come Teleperformace – che, solo a Taranto, conta oltre 1500 dipendenti e centinaia di lavoratori a progetto, Mach10 e Human Power. La loro condizione lavorativa, le tutele e i diritti vanno di pari passo con il tipo di contratto con il quale sono assunti. Si va da una realtà dove le tutele sono relativamente alte come Teleperformance – dove ci sono lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato -, ad aziende in cui ancor oggi concetti come “tutele e diritti” sono obiettivi da raggiungere – per non dire da conquistare. Le ultime denunce della Slc-Cgil di Taranto hanno evidenziato però che esiste una forte presenza di “sommerso”. Sono stati censiti infatti circa 134 lavoratori privi di contratto (come nel caso del call center di Grottaglie), pagati 2,50 € l’ora – rispetto alle 5 € previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Motore di questo fenomeno sono i committenti e a pagare le conseguenze delle gare a ribasso sono i giovani o chi vive in uno stato di bisogno. Le condizioni che gli vengono imposte dal ricatto occupazionale degli imprenditori da “sottoscala” sono al limite della schiavitù. Ripresi costantemente da telecamere, i lavoratori sono costretti a non chiedere mai spiegazioni, pena la sospensione o l’allontanamento e licenziamento dall’azienda, come risulta dalla denuncia effettuata dall’Slc nel caso di un call center di Taranto.
In questi anni la regolarizzazione e la stabilizzazione dei precari nel settore in-bound (ovvero i call center che ricevono le chiamate) sono state barattate dai governi con incentivi alle imprese; ciò ha prodotto una proliferazione di unità e la frammentazione del settore. Finiti però gli incentivi, le aziende hanno preso a scaricare il loro rischio d’impresa sui lavoratori attraverso esternalizzazioni, appalti, subappalti (nel migliore dei casi), sino ad arrivare alla delocalizzazione. Il settore ha vissuto anche delocalizzazioni “interne”, fra diverse regioni d’Italia, che hanno prodotto ulteriori divisioni all’interno del Paese e nel fronte dei lavoratori, messi uno contro l’altro per un lavoro sottopagato. Le grandi aziende appaltano l’assistenza clienti a società di servizio, che spesso a loro volta subappaltano il lavoro: in tutti questi passaggi le aziende guadagnano a discapito dei lavoratori, le cui condizioni di lavoro vengono riviste invariabilmente al ribasso.
Come potrebbe sentirsi sicuro il lavoratore di un’azienda che si vede togliere il lavoro da un importante committente e che vede il proprio futuro legato a meccanismi di vero e proprio ricatto occupazionale? Perché dovrebbe sentirsi protetto un lavoratore che sa bene che la propria storia retributiva, la propria professionalità sono considerati un peso da eliminare dalla maggior parte degli uffici acquisti delle grandi committenze, che vedono nella compressione brutale del costo del lavoro e dei diritti la strada maestra per massimizzare i profitti?
Eppure l’Unione Europea ha emanato la Direttiva 23/2001 che prevede clausole speciali per il mantenimento dei diritti in caso di esternalizzazione ad altra azienda. La mancata trasposizione di quella direttiva, che ha impedito l’estensione delle tutele previste dall’articolo 2112 del c.c. in occasione della successione o cambio di appalti, ha creato in Italia un vuoto normativo che consente di creare crisi occupazionali esclusivamente per ridurre il salario dei lavoratori e comprimerne i diritti
La crisi occupazionali delle aziende di call center non sono determinate quindi da un calo dell’attività lavorativa, ma unicamente dall’opportunità concessa al committente di cambiare liberamente il fornitore del servizio senza essere tenuto a garantire la continuità occupazionale a quei lavoratori che già prestavano la propria attività. Presso la sede di Taranto di Teleperformace quasi due anni fa si è firmato un accordo sindacale per ridurre il costo del lavoro, con un abbassamento del livello e il congelamento degli scatti d’anzianità per tutta la durata dell’accordo, da gennaio 2013 a giugno 2015. I call center sono realtà in cui la struttura dei costi si basa quasi esclusivamente sui salari; la tendenza è quindi a scaricare gli sconti sulle tutele e i diritti dei lavoratori, e naturalmente sugli stipendi, così come previsto appunto dall’accordo del 10 gennaio 2013 che ha aperto alle deroghe al contratto nazionale. In questo modo il committente mantiene basso il costo con gli sgravi contributivi permanenti e le retribuzioni dei lavoratori ai minimi contrattuali e senza anzianità, mentre lo Stato paga due volte: gli ammortizzatori sociali per i disoccupati e gli incentivi per le nuove assunzioni, senza creare nemmeno un posto di lavoro nuovo.
In nessun paese europeo ciò è possibile, in quanto il recepimento della direttiva su citata ha portato al varo di leggi che direttamente, come nel caso della TUPE inglese (o con rimandi ai contratti di lavoro, come accade in Spagna), impone di garantire continuità occupazionale in caso di successione di appalti per le stesse attività. In questo modo quei mercati hanno deciso di premiare le aziende che investono in tecnologia e che riescono ad essere efficaci sviluppando ed investendo in IT e ricerca.
In Italia invece si premia l’imprenditore più spregiudicato, che viola regole e leggi e in questo modo comprime il costo del lavoro. In questi anni, però, non solo le aziende hanno diviso il fronte dei lavoratori, ma anche i governi. La “politica dei due tempi” del governo Prodi e del suo ministro del lavoro, Cesare Damiano, ha prodotto una spaccatura verticale tra gli operatori dell’in-bound, che hanno vissuto i processi di stabilizzazione, e i lavoratori dell’out-bound, che continuano a lavorare con contratti a progetto o addirittura con la partita Iva pur essendo nella realtà dipendenti.
Sul fronte sindacale, a Taranto, quella di Teleperformance è tra le realtà più sindacalizzate. Slc-Cgil conta più di 500 iscritti su 1700 lavoratori. In vista della manifestazione del 25 ottobre promossa dalla Cgil si stanno organizzando assemblee per sensibilizzare i lavoratori. Ma non essendo uno sciopero, le adesioni maggiori provengono da chi non è in turno, e sono comunque alte. Le modifiche del governo all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, oltre che le norme sulla videosorveglianza potrebbero servire all’azienda per mandare via personale senza passare dai ministeri e dagli ammortizzatori sociali.
Le mobilitazioni organizzate dagli operatori di call center sono tantissime. Per lo più focolai sparsi sul territorio nazionale. Tuttavia questa azione a macchia di leopardo dovrebbe confluire in una mobilitazione nazionale per bloccare il settore, ampliare il fronte rivendicativo allo scopo di migliorare la condizione di tutte e tutti indipendentemente dal contratto o dal servizio che offrono (inbound/outbound). I lavoratori vogliono un lavoro di qualità non sottopagato, sfruttato fino all’osso, precario e sotto ricatto.
Oggi il governo deve confrontarsi con le paure di questi migliaia di lavoratori, paure che non si possono risolvere con un hashtag o con un selfie. Per portare il terrificante dato italiano a livelli accettabili ci voglio fatti concreti e decisioni coraggiose, in linea con quanto avvenuto nel resto d’Europa. L’attuale condizione degli operatori e operatrici di call center è inaccettabile e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che non è più rinviabile in Italia una norma che garantisca i lavoratori nei cambi di appalto e che, una buona volta, tolga i lavoratori dalla tenaglia del costante gioco a ribasso dei committenti e dalla sfrenata ricerca di profitti di certi imprenditori.