di Serena Mancini
Rabbia, indignazione e tanta sfiducia: queste le emozioni che il nuovo film di Daniele Vicari vi provocherà nell’immediato. Rabbia per quelle botte gratuite e ingiustificate, indignazione per quelle decisioni politiche prese volontariamente per infliggere torture e infine sfiducia per un organo governativo che, anziché tutelare i cittadini, si scaglia contro di loro, provocando un massacro. Diaz è una vera ferita per quanti hanno continuato a credere per anni che nel 2001 Genova fosse divisa tra buoni e cattivi. Da una parte i corpi di polizia costretti a “caricare” per garantire “ordine e disciplina” alla città ligure, dall’altra i black block, gruppi organizzati di manifestanti, dediti ad azioni di protesta violente e distruttive. A distanza di più di dieci anni però tale scenario viene rimesso in discussione. Le vicende della scuola Diaz e soprattutto quelle della caserma di Bolzaneto rivelano al mondo intero una situazione diversa da quella che i media ci hanno raccontato.
Nulla di quanto venga rappresentato appare scontato, nessuna scena del film racconta cose già dette. È come assistere ad una lezione sulla nostra storia, un ripasso sul concetto di “sospensione dei diritti civili” dell’individuo. Il film ripercorre fedelmente quanto descritto nelle carte processuali, affidandosi spesso ad alcuni video realmente girati al momento dello scontro; esso appare scandito da una serie di flashback intervallati dal lancio di una bottiglia che andrà ad infrangersi sul marciapiede, senza provocare alcun danno. L’oggetto sembra divenire metafora dell’intero movimento no global e delle sue aspirazioni : « lanciato » anche esso con la considerazione diffusa di essere pericoloso, solo perchè movimento di massa, viene troncato improvvisamente e finisce per essere distrutto in mille pezzi. La rottura del vetro però sembra anche rappresentare il momento in cui gli scarsi equilibri raggiunti vengono meno, assieme al patto di « umanità » stipulato tra poliziotti e manifestanti e rispettato sino a quel momento (o forse sino alla morte di Carlo Giuliani).
Ma Diaz rievoca anche le immagini e i filmati che spesso abbiamo associato alle pene inflitte ai prigionieri nei campi di sterminio. Corpi nudi e inermi, costretti a rimanere in piedi per ore, a tacere, a sopportare persino che altri individui vi urinassero sopra o ad accettare l’umiliazione di piegarsi a quattro zampe per abbaiare. Con le vicende della Diaz e di Bolzaneto azioni considerate prettamente naziste e sempre in un certo senso attribuite ai totalitarismi che tanto appaiono distanti dalla nostra epoca, ci ricordano quanto paradossalmente sia « umano » infliggere sofferenze ai nostri simili, venendo meno a qualsiasi legge morale o etica. Tutto questo nonostante si ripeta costantemente « mai più » o ci si interroghi sul « come sia possibile tutto ciò ». Come per il processo di Adolf Eichmann nelle vicende di Genova si scorge quella stessa « Banalità del male » di cui parlava la Arendt : poliziotti dediti al loro lavoro, tanto dolci e gentili al telefono con le proprie mogli e altrettanto violenti e brutali con altri individui. Anche in questo caso è come se i carnefici si giustificassero dietro alla volontà di arrestare i black block, mentre il movimento no global li accusa di aver massacrato cittadini inermi. Ma non è forse inutile dare spazio a queste polemiche ? Se alla Diaz ci fossero stati i black block le responsabilità delle azioni compiute dai poliziotti non sarebbero state minori. Rappresentando lo Stato di diritto il loro comportamento sarebbe dovuto rimanere impeccabile, persino di fronte a chi distruggeva vetrine e bruciava automobili. Nessuno può farsi giustizia da sé, né tantomeno può arrogarsi il diritto di infliggere violenza gratuita : questi sono principi irrinunciabili per una democrazia che voglia definirsi tale.
Ma dal film si evince anche un particolare senso di impunità. L’unica critica che probabilmente può essere mossa è quella di non aver segnalato agli spettatori nomi e cognomi dei responsabili (in particolare ci riferiamo al capo della polizia De Gennaro, mai espressamente citato) tanto di quelli materiali quanto dei veri mandanti. L’impressione all’uscita dalla sala cinematografica è certamente quella di una forte ingiustizia che però rimane legata ad una moltitudine di soggetti, senza che si possano identificare dei carnefici in carne e ossa. Non un film di denuncia dunque, specie se si considera la quasi-totale assenza di personaggi politici. Si riescono solo ad intravedere gli ordini impartiti dall’alto che contribuiscono ad accrescere il senso di impunità negli agenti, ultimi anelli della catena. E per tutti quei poliziotti che hanno assistito senza intervenire o hanno agito perché così gli era stato ordinato, mi viene in mente la frase ricavata dai codici penali e militari di vari paesi civili e pronunciata dalla corte durante il processo ad Eichmann : « Alle azioni manifestamente criminali non si deve obbedire in nessun caso ».