[Non sono riuscito a trovare un’immagine che esprimesse il rapporto di Alessandro con Taranto. Vorrei rievocarne una con un aneddoto. Lo scorso anno Alessandro mi aveva coinvolto nel gruppo “Identità e memoria” per la redazione del Piiil, il Piano per la cultura della Regione Puglia. Un giorno stavamo tornando a Taranto da Bari, dove si era parlato anche di identità industriali. Passammo accanto all’Ilva, dalla strada per Statte (non ricordo perché facemmo quella). Ci trovammo davanti lo stabilimento in tutta la sua imponenza. “Dovremmo fare una foto e pubblicarla nel Piano col commento «qua facciamo l’acciaio, otr ca le chiacchier»”, mi disse. Ridemmo a lungo come due cretini]
Domani Taranto darà il suo ultimo saluto ad Alessandro Leogrande. Una cerimonia fortemente voluta dalla famiglia, e non per formalità. Il legame che univa Alessandro alla sua città di origine era profondo. Verrebbe da dire che senza Taranto non ci sarebbe stato l’Alessandro Leogrande che abbiamo conosciuto.
Ci scherzava sul fatto di continuare a mantenere la residenza quaggiù nonostante da oltre vent’anni vivesse stabilmente a Roma. Ma era la sua idea di cittadinanza, di cui tante volte abbiamo parlato: mantenere un legame con il posto in cui si è cresciuti nonostante la distanza di tempo e di spazio. Non è la retorica reazionaria delle “radici” – che Alessandro aborriva –, ma una visione che nasceva da una chiara coscienza della condizione dell’emigrato. In tanti suoi lavori ricorrono storie di emigrazione, e la cifra del racconto di Leogrande è il tenere sempre conto dei fili che congiungono il presente al passato, il luogo di arrivo a quello di partenza. L’emigrato per Leogrande non è uno spiantato, ma un essere umano dall’identità complessa, che vive contemporaneamente mondi e dimensioni diverse, che continua ad avere rapporti non solo affettivi con la terra di origine, ma anche politici, culturali, economici. Su questa consapevolezza deve aver inciso il lungo rapporto di Alessandro con l’Albania, iniziato da giovanissimo come volontario della Caritas insieme al papà Stefano. Ma l’attenzione per le comunità emigrate è stata una costante della sua attività pubblica – e della sua vita privata. Curdi, somali, eritrei, albanesi, ma anche italiani delle americhe, del Belgio, della Svizzera. Una delle sue ultime passioni letterarie era il poeta Joseph Tusiani, newyorkese originario di San Marco in Lamis, insignito nel 2016 del titolo di “poeta laureato” dello Stato di New York.
Alessandro è stato un “fuori sede”. Ha voluto esserlo. E questo gli ha permesso di continuare a seguire le vicende della sua città con un’attenzione e una partecipazione costanti. Il suo contributo alla comprensione di Taranto nell’ultimo ventennio è fondamentale. Ma per Alessandro Taranto è stata allo stesso tempo la dimensione in cui è avvenuto il suo imprinting culturale. Alcune sue convinzioni di fondo, che si trovano riflesse nella produzione successiva, derivano da quell’esperienza. Ciò vale soprattutto per la lettura della società e della politica italiana.
Il primo libro di Alessandro (“Un mare nascosto”, L’ancora del Mediterraneo 2000) è una straordinaria fotografia della Taranto a cavallo fra i due secoli. Si apre con la manifestazione dei sostenitori di Giancarlo Cito, a pochi giorni dalla sua incriminazione per concorso esterno in associazione mafiosa. In quelle pagine Leogrande ricostruisce la matrice del citismo: un popolo variegato, che riunisce la plebe e la borghesia “stracciona”, senza precisi connotati politici (nonostante la chiarissima filiazione del capo dalla destra neofascista). Un popolo tenuto insieme da un’idea di riscatto municipale – contro il governo, i partiti, le organizzazioni di massa. Una rappresentazione – allora indecifrabile, ma oggi fin troppo chiara – di quel processo di disintermediazione che nei due decenni successivi ha profondamente stravolto la democrazia italiana.
Leogrande (allora neanche trentenne) non solo vedeva tutto questo con maggiore acume di tanti politici ed intellettuali “titolati”, ma sapeva legare quel fenomeno a un più vasto stravolgimento della società locale e nazionale. Qualche capitolo più in là il racconto si sofferma sulla grande fabbrica e sulle trasformazioni che stava attraversando in quegli anni. Alessandro focalizzava l’attenzione sulla clamorosa vicenda della Palazzina LAF, ed estendeva lo sguardo ai processi di disciplinamento della manodopera che Riva stava realizzando attraverso un drastico turn over. I giovani che entravano in fabbrica con contratti a tempo determinato apprendevano da subito che per conservare il lavoro avrebbero dovuto tenersi alla larga dal sindacato. Si realizzava così una radicale disarticolazione del movimento operaio.
Alessandro riconosceva così una connessione fondamentale fra crisi della democrazia e mutamento dei rapporti sociali. Questo valeva in particolare per Taranto, dove il movimento operaio aveva rappresentato storicamente un fattore di progresso civile, ma era facilmente estendibile all’intero paese.
Questa consapevolezza torna nei suoi scritti più recenti. A partire dal contestatissimo corsivo del 3 agosto 2012. Al netto della vis polemica, in quello scritto Leogrande delinea un quadro preciso: da una parte, lo svuotamento dei sindacati, ormai incapaci di rappresentare e di dare un indirizzo al grosso della massa operaia; dall’altra, la protesta immediata, che non assume una direzione chiara, ma finisce per alimentare un magma indistinto di malessere che nessuno è in grado di rielaborare e di incanalare in una prospettiva di trasformazione dell’esistente.
Negli anni seguenti Leogrande continua a sviluppare questi temi, a partire dal libro “Fumo sulla città” (Fandango 2013). Stabilisce un rapporto diretto con la parte più avanzata del movimento operaio, attraverso il quale cerca di capire le trasformazioni avvenute in fabbrica dopo l’implosione del sistema Riva. Approfondisce la sua riflessione sui meridionalisti del passato, interrogandosi sull’idea dell’industrializzazione come veicolo di una più profonda riforma sociale e morale del Mezzogiorno. Da questi spunti emerge la prospettiva di un nuovo protagonismo operaio che assuma pienamente il tema del risanamento ambientale come parte fondamentale di un progetto di trasformazione della fabbrica. Una trasformazione non solo tecnica, ma soprattutto politica, all’insegna di una ridefinizione democratica dei rapporti di potere. Un progetto che avrebbe richiesto un rinnovato intervento pubblico in economia, e che avrebbe rafforzato la stessa democrazia politica.
Ma la prospettiva tracciata da Leogrande si è rivelata utopistica di fronte agli indirizzi seguiti dal governo negli anni seguenti. Negli ultimi tempi Alessandro era molto più pessimista circa la possibilità di risolvere positivamente la questione Ilva. E il suo sguardo critico si estendeva alla politica locale, arrivando a riconoscere nella frammentazione dell’ultima tornata elettorale l’assenza di una classe dirigente riconosciuta dalla società. Lo “spappolamento” emerso nell’estate 2012 non si era ricomposto, ma semmai era andato esasperandosi, con l’implosione di quel che restava dei partiti della seconda Repubblica e il dilagare dell’astensione. Gli stessi margini di trasformazione aperti dal crollo dei Riva erano stati riassorbiti da una grande paralisi: un “compromesso senza riforme”, in cui momentaneamente si era garantita l’occupazione e si erano contenute le emissioni, in cui i sindacati avevano trovato maggiore agibilità e lo strapotere dei quadri aziendali era stato ridimensionato, senza però che tutto questo desse luogo a istituzioni durevoli e a una complessiva ridefinizione del ciclo produttivo.
Alessandro, come tanti altri (compreso chi scrive), è uscito sconfitto da quella stagione (i veri vincitori forse emergeranno a conclusione del processo di vendita di Ilva). Ma la sua passione per Taranto non si è smorzata. Il suo impegno più recente aveva riguardato soprattutto il futuro della Città Vecchia. Rispondendo alla chiamata dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, Alessandro era sceso in campo nella battaglia per l’attuazione del Piano Blandino, contro i rischi insiti nel concorso di idee bandito da Invitalia: rischi per il patrimonio materiale e rischi per la democrazia. Una battaglia che adesso continueremo anche per lui.
Se grande è il vuoto che la scomparsa di Alessandro Leogrande ha lasciato nella cultura italiana, per Taranto la perdita è incommensurabile. E’ come se avessimo subito un colpo fortissimo e ora il nostro cervello collettivo funzionasse al 50% delle sue capacità. Se con Alessandro vivo e attivo era già difficile far circolare qualche idea a Taranto (e su Taranto), ora la sfida diventa quasi impossibile.
Ma Alessandro è stato come il bambino della favola del Re nudo. Ha mostrato a tutti che le mura che sembrano rinchiudere la città e isolarla dal resto del mondo sono inconsistenti. E che il conflitto dentro/fuori è una scissione irrazionale. Ci si può lasciare alle spalle la gabbia del provincialismo senza perdersi nel cosmopolitismo, ma guadagnando una dimensione integrale in cui universale e particolare, città e mondo, sono poli indivisibili. E’ la vecchia lezione di Gramsci, che Alessandro, questo grande figlio della provincia meridionale, ha saputo fare sua fino in fondo. Ora sta a noi continuarla.