È difficile, molto difficile mantenere l’umidità negli occhi, per noi, scorrendo le pagine, i link, le immagini che parlano di Alessandro Leogrande. E a guardarlo divenire forse già un’icona del XXI secolo si fa fatica, per quanto costituisca un’amara consolazione all’averlo perso così presto. Perché non possiamo ancora credere di aver perso per sempre la sua voce. Non possiamo fare a meno di pensare a quanto Alessandro avesse ancora da dare a questo mondo, a questo Paese, a questa terra, la sua.
Nell’ultimo anno, in seno ai lavori del PiiiL Cultura, gli era particolarmente caro un antico proverbio arabo, che aveva posto come linea attorno alla quale si sarebbe dovuto articolare il tema da lui condotto, quello dell’identità e della memoria: “Beato colui che riesce a dare ai propri figli ali e radici”.
Lui le ali le ha dispiegate bene e ha saputo volare. Ma le radici, quelle, erano ben conficcate nella sua terra d’origine, con tutte le sue complessità e l’ambigua natura del suo essere: una grande città di provincia che vuole giocare a fare la metropoli. Questo contesto dissestato ne ha certamente plasmato il metodo, perché per star dietro a Taranto, alle sue contraddizioni, ai suoi pezzi di società in conflitto o in combutta a seconda dei venti che tirano – ma sempre pezzi, frammenti, brandelli restano – è necessaria una costante, continua, incessante ricerca. E tempi lunghi. E “lavoro fatto bene”.
Ha dedicato a Taranto numerosissimi articoli che messi insieme, probabilmente, darebbero un ulteriore quadro del suo sguardo così lungo, della meticolosità della sua ricerca. Alcuni interventi, soprattutto legati alla questione ILVA, sono stati particolarmente critici, talvolta con toni molto duri. Hanno scatenato polemiche, gli hanno sguinzagliato contro un piccolo branco di leoni da tastiera. E così si è riproposta la tipica situazione da “Nemo propheta in patria” al quale veniva puntualmente contestato il fatto di parlare stando lontano, di fare l’intellettuale da un’altra città. Atteggiamento diffuso in una città che vive di guerrieri di carta velina, autoproclamati e totalmente disabituati al contraddittorio.
Ma Alessandro tirava dritto per la sua strada, insegnando un po’ a tutti che, quando ci vuole, qualche “No!” va detto; che non ci si deve necessariamente “arruffianare” l’avversario, accontentare un po’ tutti; che se si ha una idea vale la pena affermarla, costi quel che costi. Ed è questo andare avanti spedito che, di fronte a quell’intolleranza, ha permesso che si opponesse una ben più combattiva falange di donne e uomini della sua città che hanno visto in lui un punto di riferimento imprescindibile per qualunque forma di analisi e che ha trovato il coraggio nelle proprie battaglie, senza piegare la schiena, a costo di farsi dei nemici.
In questa falange, assieme ai tanti, tantissimi che in questi giorni, man mano che si rendono conto, lo piangono, rientra sicuramente buona parte della redazione di Siderlandia. E non a livello di fanatismo, di prostrazione nei confronti di un guru inavvicinabile ma necessariamente saggio, buono e giusto. Quello con Alessandro era un rapporto di scambio reciproco, di collaborazione, di stima profonda. Era anche un rapporto di amicizia: ci si confrontava sulla politica, sulla società, su questa città da portare “fuori dalle mura”; ma si cenava assieme, si beveva, si rideva. E Alessandro era una persona che sorrideva molto. Quel sorriso che è accoglienza, porre l’interlocutore a proprio agio, umiltà. I giornali, i ricordi sparsi lo descrivono come gentile tanto ci si è abituati a una certa forma di intellettuale. Alessandro, nelle sue camicie a quadri, nel suo prendere appunti svelto, in qualsiasi momento e dinanzi a chiunque gli facesse balenare un collegamento che solo lui, in quel momento, riusciva a vedere, aveva l’umiltà dei grandi. E invitava a diffidare da chi non ride mai.
Ale portava gli occhiali e, dietro, aveva due occhi che apparivano sempre un po’ stanchi. Le palpebre superiori erano sempre leggermente calate ma dopo poco ci si accorgeva che quello sguardo era lo sguardo di chi scruta: acuto, vigile, analitico, penetrante, sottile. A tratti ipnotico.
Ed è per noi assurdo dover pensare che quegli occhi si siano chiusi per sempre sul mondo.
Nel nostro ancora vivissimo dolore, nella consapevolezza di aver perso, assieme all’amico, quella voce forte che, da più canti, ci faceva sentire meno soli nella battaglia, desideriamo salutare Alessandro con la promessa di preservarne non soltanto il ricordo, l’immagine, l’icona, ma la memoria, cercando per quello che ci sarà possibile, nei contesti in cui ci troveremo a operare, di portare avanti le sue battaglie di principio e di metodo.
Arrivederci Ale. E grazie di tutto.