Negli ultimi giorni, intorno ai gravi problemi di salute dell’ex segretario del Partito Democratico, si è aperto un acceso dibattito, soprattutto in seguito ai diffusi auspici e commenti che, in qualche modo, auguravano un esito non propriamente positivo della vicenda clinica di cui è vittima Bersani.
La rete, e in particolare i social media, anche in questa circostanza hanno fatto registrare toni dal sapore prevalentemente forte, aspro, duro. È una tendenza ormai consolidata: i meccanismi che favoriscono il consenso, sui social network in particolare, sono tendenzialmente poco inclini ad ospitare ragionamenti complessi, articolati, dubitativi.
Di più: la vicenda dei numerosi messaggi malauguranti prodotti sul web sembra essere idonea a palesare una serie di meccanismi ormai consolidati in seno al popolo, con i quali sembra necessario iniziare a fare i conti.
Da un lato la vicenda Bersani si inserisce in quel clima di avversione sistemica per tutto ciò che circola intorno e dentro la così detta casta dei partiti. Che questo atteggiamento sia particolarmente diffuso (e aspro) a Taranto non penso possa meravigliare: in quest’ottica, c’è davvero poco da indignarsi e sembra il caso di rigettare, con forza, approcci moralizzanti e pedagogici. C’è da registrare – casomai ce ne fosse ancora bisogno – del distacco siderale tra rappresentanti e rappresentati. A Taranto, come detto, questo fenomeno è ancora più accentuato, anche per le note vicende giudiziarie (e per gli interventi legislativi che ne sono seguiti). Il Pd, in quest’ottica ci ha messo decisamente del suo nell’attirarsi diffuse e strutturate inimicizie.
Qui, però, occorre sgombrare il campo da un equivoco: la comprensione del fenomeno – il motivo per il quale sorgano con frequenza forme di ostilità verbali nei confronti di Bersani & co – e la valutazione dell’utilità politica di queste forme di ostilità verbali si collocano su due piani di ragionamento ben diversi.
Se si ritiene – legittimamente – che il fenomeno in oggetto rappresenti una tendenza politica in qualche modo positiva, bisognerebbe sforzarsi per sostenerlo e generalizzarlo, uscendo da quella diffusa passività da sociologo di chi, costantemente, si limita a registrare ciò che accade.
Io invece ho la sensazione che la tendenza in questione vada – dopo aver compreso il contesto nel quale sorge e tenendosi alla larga da atteggiamenti pedagogici e moralizzanti – riarticolata e invertita, per motivazioni che, partendo dal caso di specie, provano ad andare ben oltre.
Non sembra il caso di addentrarsi nelle tematiche della sacralità della vita e dell’intimità del dolore: sono argomentazioni che, evidentemente, avrebbero bisogno di una trattazione specifica. Quello che è interessante evidenziare risiede, probabilmente, nel contesto culturale che favorisce il sorgere di comportamenti di massa del genere.
Del malcontento diffuso nei confronti della casta si è scritto molto, in questi mesi. Alcuni aspetti, però, sembrano aver bisogno di un ulteriore approfondimento. Ci si riferisce all’ampia dose di passioni tristi che quest’atteggiamento di ostilità diffusa si porta dietro. È ormai evidente come la retorica generalizzata della gente vs casta, con il suo portato di rancori, impotenze e passività, non sia per nulla idonea, neanche a Taranto, a rappresentare la base per qualsivoglia percorso di alternativa ai mali del presente, ma anzi finisca costantemente per catturare, invece, molte energie e pulsioni potenzialmente positive.
Inoltre, anche l’episodio in oggetto è sintomo di un clima culturale ormai consolidato. Nella hit dei simboli dell’avversione diffusa i politici occupano, per distacco, il primo posto. Questo fenomeno è, ancora una volta, allo stesso tempo comprensibile ma fuorviante: come già detto, intorno al rancore non sembra essere possibile costruirci niente che abbia anche solo il potenziale dell’alternativa. Di più: dalla classifica delle inimicizie in seno al popolo, per esempio, i simboli del potere economico, anche localmente (al netto, per ovvi motivi, della dirigenza delle grandi aziende inquinanti), sono stati via via espulsi, con meccanismi di continue riabilitazioni, nell’ottica di un ormai largamente accettato interclassismo.
Quello che un tempo costituiva ostilità di classe, ha preso via via i connotati di un odio generalizzato, con toni fortemente personalistici, nei confronti dei politici. La differenza non è di poco conto: mentre il primo sentimento aveva come retroterra ideologico un progetto complessivo di emancipazione, appunto, di classe, l’odio nei confronti dei rappresentanti non sembra essere costitutivo di nessuna sollevazione generale al di là dell’inflazionato tutti a casa.
Inoltre si registrano sempre con più frequenza atteggiamenti, interventi e iniziative, impensabili fino a qualche tempo fa, apertamente a tutela degli interessi d’impresa – che nascono sempre più spesso anche da sinistra e dai movimenti – in vista di progetti di cambiamento che pongono come nodo centrale l’interesse generale (cioè, l’interesse del capitale).
In ultimo, il rapporto dialettico col potere – che spesso sfocia in una morbosa biunivocità – sta formando soggettività rientranti nella figura dominante del triste e passivo commentatore – fenomeno anch’esso incentivato dal sistema di relazione dei social media.
Accanto ad un atteggiamento di ostilità diffusa nei confronti degli opprimenti meccanismi del potere – facendo, però, un deciso passo in avanti e verificando come, molto spesso, non risiedano (solo) dove vengono palesati – sarebbe il caso interagire e riarticolare collettivamente le pulsioni potenzialmente distruttive in seno al nostro 99%. Altrimenti sarà il caso di non stupirsi al levarsi dei prossimi forconi.