Pubblichiamo un contributo esterno, una riflessione sulle vicende di questi giorni. Auspichiamo che pervengano altri apporti per alimentare il dibattito, che siano d’aiuto in questa controversa situazione.
Questo è il contributo di Fabio Boccuni, operaio Ilva.
Può succedere, in un determinato periodo storico e in una particolare città, che improvvisamente le vittime diventino carnefici, creando cortocircuiti nei comportamenti, nelle analisi e nel linguaggio di una comunità che, alla lunga, smette di essere tale (o forse non lo è mai stata del tutto) coinvolgendo in tale intorpidimento intellettuale molti dei suoi cittadini più lucidi, attivi e sensibili.
È ciò che in questi giorni succede a Taranto, la città dei due mari e la città dei due mali, o almeno, due su tutti: il lavoro e l’ambiente.
Succede agli operai degli appalti dell’Ilva di Taranto, ai quali, a fronte di un pasticcio del governo sul settimo decreto Ilva che con l’avvio dell’amministrazione straordinaria rischia di far saltare le spettanze arretrate che le ditte appaltatrici vantano nei confronti di Ilva e con la regia malvagia di confindustria Taranto e del suo presidente, è stata paventata la minaccia di licenziamenti, prima con l’illegittima messa in libertà, e ora con una farraginosa procedura di un qualche ammortizzatore sociale di cui ancora non si sa l’esito.
Succede a loro perché, proprio per questa situazione, gli operai hanno deciso di scioperare, bloccando la città. Fatto che a molti cittadini ha creato qualche malumore.
Sono lavoratori e padri di famiglia che in alcuni casi non percepiscono stipendi da mesi. Sono lavoratori che ogni giorno lavorano per 8/12 ore, spesso con contratti precari e in condizioni difficili sia pur migliori di quelle del passato.
Sono i superstiti. Perché molti altri, dall’inizio del 2008 ad oggi, quel lavoro lo hanno perso nel silenzio generale dei più. Sono quelli che la crisi dell’Ilva l’hanno pagata più di tutti, in termini occupazionali. Sono gli Antonio Mingolla e i Ciro Moccia morti ingiustamente sul e per il lavoro, dei quali ci riempiamo la bocca solo quando conviene e che troppo spesso dimentichiamo, ma che potrebbero essere, in un futuro, non troppo lontano, anche tutti gli altri lavoratori dell’Ilva .
Questi lavoratori stanno provando a reagire, certo in modo confuso e magari anche discutibile, complice la regia occulta di chi vuole “soffiare sul fuoco”. Ma in qualsiasi comunità che si rispetti non sarebbero stati isolati e abbandonati dalla città, avrebbero piuttosto goduto della solidarietà che si deve ad una categoria vittima, debole e bisognosa d’aiuto. Sarebbero stati sottratti dalle grinfie di chi, come confindustria, tenta di usarli come testa di ariete per i loro interessi. Lo abbiamo visto a Terni come a Genova. Ma Taranto non è Terni e non è Genova.
A Taranto, a torto o a ragione, bloccare la città è diventata una cosa mal digerita se di mezzo ci sono i lavoratori Ilva; un atto che negli scorsi giorni, da molti cittadini è stato vissuto come un colpo sferrato alla città. Come se la perdita di posti di lavoro non fosse un ulteriore schiaffo alla cittadinanza tutta.
Si chiede a questi operai di “redimersi” e chiudere loro stessi la propria fabbrica. Per questi lavoratori e per la loro vicenda drammatica, la città non si è scomposta più di tanto. Molti silenzi, qualche timida e appena enunciata vicinanza, ma soprattutto un preoccupante, non tanto nei numeri quanto nei toni, sentimento di malcelata insofferenza mista ad una quasi soddisfatta indifferenza, che si è espressa, tanto nelle analisi virtuali, quanto nei commenti verbali di fasce indiscriminate della città, le stesse che credono di capire la società e le sue contraddizioni a suon di clic.
Tutti, probabilmente, in buona fede, ma tutti drammaticamente guidati dall'”istinto della pancia” e dalla frustrazione creata dal disagio, al quale nessuno sembra in grado di rispondere.
Questi operai, ma anche i dipendenti diretti da tempo, vengono accusati, e a volte condannati, di essere complici e assassini. Perché si ritiene che con la loro prestazione d’opera contribuiscano ad ammazzare la gente, spesso i loro stessi cari, come se tutte le colpe dei padroni fossero ascrivibili ai propri dipendenti.
Immaginate un po’ se questo ragionamento fosse traslato all’evasione fiscale in Italia: quante povere commesse, segretarie e dipendenti di multinazionali e altri dovrebbero sentirsi complici delle malefatte dei loro padroni, quando in realtà ne sono vittime?
Soprattutto ci si dimentica che lottare dall’interno è cosa ben diversa e difficile che giudicare dall’esterno.
Gli operai vengono accusati di essere tutt’uno col padrone: ora, senza voler negare la crisi evidente della classe operaia come soggetto politico, così come la crisi dei sindacati, che trovano enormi difficoltà nel ricompattarli e veicolarne le istanze verso i veri obiettivi, bisogna pur dire che in questa fase, dove ci stanno portando a vedere come un nemico anche il proprio collega di lavoro, è veramente difficile mettersi contro il proprio padrone e provare ad essere compatti. Quei pochi che provano a farlo, non trovano grosse sponde o consenso.
Troppo spesso i paventati licenziamenti vengono liquidati con sufficienza : «che tanto ci sono un sacco di disoccupati, molti dei quali hanno perso il lavoro a causa di quella fabbrica…e che i disoccupati e i lavoratori son tutti uguali e per quegli altri nessuno manifesta», permettendo e favorendo con questo tipo di ragionamenti un livellamento verso il basso, una guerra fratricida tra singoli in cui l’unico obbiettivo è salvarsi il culo.
Gli operai vengono accusati di avere scarsa sensibilità ambientale e di disertare le manifestazioni per l’ambiente, cosa palesemente falsa: la sensibilità sull’ambiente e la salute è un tema che trova sempre maggiore interesse tra gli operai, a volte mitigato dalla paura della chiusura della fabbrica. Una sensibilità che per certi versi rimane inespressa e silenziosa: nelle manifestazioni ambientaliste si marcia senza farsi troppo vedere, perché se non sei per la chiusura vieni a malapena tollerato nel corteo e, comunque, guardato con occhi sospettosi.
Ci si dimentica spesso che le fabbriche gli operai le hanno sempre difese, che gli interessi possono essere diversi tra padrone e lavoratore, ma non tra fabbrica e lavoratore: insieme devono produrre quello di cui abbiamo bisogno nel miglior modo possibile. Ci si dimentica che i processi produttivi andrebbero dominati per far si che si possa così rispettare la natura. Si finge di non sapere che alle volte i conflitti esplodono in maniera incontrollata , con forme incontrollabili e non di rado esplodono tra i soggetti che subiscono le contraddizioni. Si finge di non sapere che è in queste situazioni fuori controllo che trovano il terreno più fertile i vari sciacalli che agiscono sfruttando ogni tipo di disperazione, veicolandola in direzione solamente del proprio interesse personale.
È in questo contesto da torre di babele che non bisogna perdere la capacità di distinguere tra vittime e carnefici, tra sfruttati e sfruttatori.
È dalla solidarietà, dalla reciproca comprensione, non solo enunciata a dispetto delle rispettive posizioni sulla visione di città spesso distanti e inconciliabili tra loro, che questa comunità potrà tornare ad essere coesa.
Altrimenti, di questo passo, finiremo con l’augurarci vicendevolmente un tumore o un licenziamento, e non è detto che sia la cosa peggiore che possa capitarci.
Fabio Boccuni