“3×8. Cambioturno”, il documentario sull’Ilva andato in onda ieri sera su Rai 1, si inserisce in maniera originale nel panorama delle produzioni che negli ultimi anni hanno provato a raccontare il siderurgico e il suo rapporto con Taranto. Nato da un’idea di Angelo Mellone, e realizzato col contributo di Pietro Raschillà e la regia di Gian Marco Mori, è il primo lavoro che si concentra essenzialmente sulle “voci di dentro”, quelle dei lavoratori (oltre ad essere il primo che spiega chiaramente il ciclo produttivo, grazie al contributo appassionato e competente di Benedetto Valli).
L’esito può essere stato spiazzante per molti. Il “mostro” appare in una insolita normalità. Quasi un paradosso: come può essere “normale” una fabbrica di quelle dimensioni, con impianti di quella stazza? Il passaggio è chiarito dalle memorie dei lavoratori: il primo impatto con lo stabilimento viene raccontato come un trauma – quasi tutti richiamano l’immagine dell’“inferno” –, ma con l’assorbimento nell’organizzazione del lavoro quell’ambiente diventa quasi familiare – c’è chi si definisce “chef dell’acciaio”, chi paragona la laminazione alla preparazione della sfoglia.
Questo sforzo di adattamento ha prodotto una psicologia complessa, che il documentario rappresenta nelle sue diverse sfaccettature. Il rapporto col lavoro è vissuto in maniera strumentale: serve a portare a casa il salario e si chiude con la fine del turno, ma allo stesso tempo resiste un “orgoglio” legato non tanto al “mestiere” quanto al senso di partecipazione a un processo percepito come unico e colossale. Accanto a tutto questo c’è la pena per la fatica, il senso di colpa per i danni che quel lavoro potrebbe arrecare ai propri cari, ma anche una strana forma di leggerezza che appare incomprensibile all’osservatore esterno e che invece è essenziale per cogliere l’atmosfera della fabbrica: la “menomazione”, per dirla con lo slang operaio.
Un’indagine sociologica più approfondita potrebbe aiutarci a mettere ordine in questa realtà polimorfica, ma difficilmente si riuscirebbe a sfuggire all’impressione di una frammentazione radicale. Questa non riguarda solo la coscienza dei singoli, ma investe in pieno i rapporti sociali. Il documentario la evoca, anzitutto con la scelta di raccontare storie individuali, ma non va a fondo in questa direzione. Al contrario, attraverso alcuni commenti esterni – che insistono su elementi di omogeneità come la “solidarietà”, la “classe” ecc. quasi del tutto assenti nel racconto dei lavoratori – sembra voler creare sul piano dell’immaginario un’unità che nei fatti non esiste.
Le parole di alcuni lavoratori sembrano però gettare luce su questo elemento, offrendo spunti per una ricostruzione della storia recente dei siderurgici tarantini. Nelle loro memorie ricorre l’immagine dei “tempi d’oro” del boom della produzione – avvenuto con la gestione Riva. Gli intervistati ricordano che questo fu realizzato stressando impianti e manodopera – fondamentale il passaggio dell’attività delle acciaierie da due a tre convertitori, realizzato intorno al 2006. L’ipersfruttamento fu reso possibile da una combinazione di autoritarismo e paternalismo: gli straordinari obbligatori portarono l’orario di lavoro effettivo a livelli inverosimili, ma questo si tradusse in significativi benefici economici per i lavoratori. Al contempo, quelli furono gli anni del picco di incidenti sul lavoro (fra cui diversi mortali) e delle emissioni selvagge ricordate dall’ing. Biagio De Marzo.
Ma, a monte, quel particolare rapporto – obbedienza in cambio di benefici economici – era già emerso con il ricambio di manodopera effettuato dai nuovi proprietari sin dai primi anni del loro insediamento. La fuoriuscita dei “vecchi” portò all’azzeramento della tradizione sindacale precedente – già messa in crisi dalla drastica riduzione di manodopera degli anni ‘80 – e l’assunzione di giovani con contratti biennali diede un imprinting chiaro alla nuova comunità siderurgica. Il messaggio (neanche tanto implicito) era: “chi non dà problemi può restare e portare a casa un salario invidiabile per un contesto come Taranto”.
In questo modo Riva ha plasmato una realtà operaia frammentata e subalterna, negando a lungo qualsiasi legittimazione ai corpi intermedi (non solo i sindacati, ma anche Confindustria) e alle istituzioni locali. Gli esiti di tale operazione sono stati drammatici per l’intera comunità locale: un soggetto sociale che tanta parte aveva avuto nel processo di modernizzazione dei decenni precedenti veniva così relegato ai margini; Taranto perdeva uno dei pilastri su cui si era costruita la democrazia repubblicana in riva allo Jonio.
Ma quel sistema di potere a metà strada fra il modello padronale delle imprese familiari (compresa quella dei Riva) e le suggestioni thatcheriane (“la società non esiste, esistono gli individui”) non avrebbe potuto reggersi in una realtà della portata e della complessità di Ilva senza un abile ricorso alla gerarchia. I livelli intermedi sono stati probabilmente quelli che hanno sofferto maggiormente il passaggio di proprietà: dirigenti, quadri e impiegati subirono un drastico ridimensionamento, dovuto anche a pesanti demansionamenti – è in questo quadro che si inscrive la vicenda della Palazzina Laf.
I nuovi capi – che il documentario pone alla pari degli operai -, coadiuvati da una capillare rete di fiduciari direttamente controllata dal vertice, sono stati per anni i fedeli esecutori degli ordini della proprietà e i dispensatori degli eventuali benefici. Intorno al loro potere si sono consolidate pratiche di comando autoritarie e dinamiche para-clientelari che hanno contribuito alla frammentazione individualistica della realtà operaia e alla gestione dissennata degli impianti. Sarebbe stato interessante indagare la crisi di questo sistema nel passaggio al controllo commissariale e interrogarsi sul tema fondamentale dell’organizzazione del lavoro – che in futuro, ci si auspica, non potrà tornare ad essere quella dei “tempi d’oro”.
Rinunciando a un’analisi critica dei rapporti interni all’ambiente di fabbrica, e anzi avallando un’improbabile reductio ad unum delle sue molteplici contraddizioni, il documentario non spinge fino in fondo le sue premesse, mancando l’occasione di offrire una lettura il più possibile articolata del mondo Ilva, e si espone a una critica fondamentale: a tratti sembra che gli autori vogliano evocare un “blocco industrialista”, incentrato su una comunità-fabbrica ideale, da contrapporre a quello “ambientalista”. Un’operazione che, di fronte alle sfide che attendono i lavoratori Ilva e la città, sarebbe quanto meno controproducente.
Un’ultimissima nota sulle immagini. Non sono un esperto, e confesso di essere molto sensibile a quello che Alessandro Portelli definisce il “sublime operaio” (cioè quel misto di terrore e ammirazione che colpisce chi si trova di fronte a grandi impianti), ma i filmati degli interni dello stabilimento mi sono sembrati favolosi: sequenze che probabilmente resteranno nella storia della documentaristica sull’industria.