C’era una volta un palazzo color verdaccio che si affacciava su via Lucania. Attorno alle 7:30 di ogni mattino si animava grazie a poche centinaia di ragazzi con le loro cartelle, le loro tele, i loro attrezzi del mestiere, quello dell’arte. Quel palazzo ha ospitato, dal lontano 1967, il Liceo Artistico Statale “Lisippo” di Taranto. Lo ha ospitato, sì, ma a caro prezzo: 550.000 euro l’anno.
Oggi, il palazzo c’è ancora – pur avendo cambiato colore, conserva gli aloni delle targhe staccate dal marmo attorno al piccolo portone – , il “Lisippo” no. E non solo non c’è più fisicamente – gli studenti sono stati spostati in un altro, angusto, stabile in via Lago di Molveno – ma è stato “accorpato” al Liceo “Calò” di Grottaglie, venendo declassato a sede periferica del polo artistico jonico costituito nel 2012. Incredibile, se si pensa che il “Lisippo” di Taranto ha avuto esso stesso diverse succursali – Manduria e Martina, ad esempio, confluite anch’esse nel polo, oltre alla sezione distaccata presso la Casa Circondariale – e che a lungo è stato l’unico Liceo Artistico della Provincia (quello di Grottaglie era, infatti, un Istituto d’Arte); ancor di più se si pensa alla storia stessa della scuola, una storia fatta di insegnanti di spessore e allievi brillanti che, di sicuro, non merita l’eclissi che sta subendo.
I nuovi allievi del Liceo Artistico tarantino, oltre ad aver subito lo spostamento in una sede assolutamente non adeguata alle necessità che un istituto di questo tipo richiede – già quando si era in via Lucania si paventava la prossima apertura di una nuova struttura che, ancora negli anni Novanta, era in costruzione e che oggi langue arrugginita nei pressi dello Stadio Iacovone a perpetua memoria dei buoni propositi mai andati in porto – hanno anche visto sfumare la possibilità di essere ospitati nel plesso Fermi-Pertini, come stabilito da una delibera della Provincia, a causa dell’insufficienza delle aule, disponibili solo per gli studenti del biennio. Così, oltre al danno di uno stabile di dubbia utilità, la beffa dello smembramento delle classi in più edifici.
Nell’ottemperare nella peggior maniera possibile al “problema” del Liceo artistico, credo si sia persa di vista una cosa fondamentale: chi frequenta una scuola d’arte non è uno studente come gli altri e il confronto con i colleghi è necessario all’evoluzione artistica, a volte più degli insegnamenti stessi dei docenti.
È vero: i corridoi di via Lucania erano stretti, le stanze piccole, ma c’era un gran fermento di idee e, nei miei ultimi anni da studentessa, la possibilità di disporre di nuovi piani del palazzo per poter allestire laboratori o, semplicemente, smistare meglio il flusso dei ragazzi che salivano e scendevano le scale con le loro cartelline giganti, i tubi con i fogli, le grandi tele, i calchi in gesso, le righe “da 80”. C’era, al suono della campanella, nella corsa alle aule di geometrico, ornato, modellato, materie umanistiche, uno scambio tra studenti delle classi inferiori e superiori, momenti di contatto fondamentali per la crescita. Nelle stanze di via Lucania si poteva girare tra i trespoli, mettere un modello al centro e copiarlo in maniera abbastanza agile e da tutti i punti di vista perché lo spazio, in fin dei conti, c’era. E c’era anche la speranza che, un giorno, il “Lisippo” potesse avere la sua sede. Nel frattempo, però, ci si poteva arrangiare e le mostre di Natale e Pasqua si riuscivano a fare ogni anno.
Girare oggi per le piccole stanze di via Lago di Molveno e vedere appesi ai muri i quadri dei ragazzi del corso “tradizionale” dipinti nel 2000, quando io ero studentessa, lascia un po’ di amarezza. I nuovi allievi non hanno nulla di ciò che avevamo sperato per noi stessi; ma nessuno di noi avrebbe potuto immaginare che la generazione del futuro, quella successiva alla nostra, avrebbe potuto avere addirittura meno. Questa soluzione – continuiamo pure a chiamarla così – ha tolto loro la possibilità di confrontarsi con i più grandi, caricandoli della difficoltà di movimento nelle loro stesse aule. Nessuna delle necessità richieste da una scuola d’arte può dirsi, in alcun modo, soddisfatta. A dispetto dei proclami renziani, pare che l’importanza accordata alla scuola sia ai minimi storici; tanto nella questione dell’organizzazione amministrativa e didattica quanto nelle strutture ospitanti i ragazzi non si è fatto alcun passo se non come i gamberi, all’indietro. E mentre si fa di tutto per disossare la struttura scolastica nei suoi programmi e nelle sue discipline portanti – come la storia dell’arte, che è parte dell’identità di questo Paese – a chi l’arte la crea è preclusa ogni possibilità di crescita all’interno dello stesso istituto formativo a causa dell’inadeguatezza edilizia delle strutture.
Per risolvere la questione si è arrivati addirittura a invocare l’intervento dei privati: certo, a meno che non si tratti di un benefattore o un mecenate, ritengo difficile che un privato possa sostenere una spesa per una scuola pubblica senza aspettarsi un personale tornaconto. Ritengo altresì che, spettando l’educazione scolastica allo Stato, sia esso che, attraverso l’attività dei propri enti – nel caso dell’edilizia per le scuole di secondo grado, la Provincia – debba farsi promotore di interventi tesi alla giusta fruizione della scuola anche in termini di efficienza strutturale.
Intanto, i ragazzi si sono fatti sentire, lo scorso 17 settembre, dopo diversi giorni di smarrimento e nessuna chiarezza, manifestando dinanzi al Palazzo della Provincia.
Forse un punto di partenza sarebbe mettersi a un tavolo e passare seriamente al vaglio gli immobili demaniali per capire quale destinare allo storico Liceo artistico tarantino, attrezzandolo e dotandolo delle strumentazioni adeguate ad assolvere il compito formativo che una scuola di secondo grado si propone. Il tempo ci dirà se il nuovo Presidente della Provincia, Martino Tamburrano di Forza Italia – il partito della privatizzazione a tutti i costi – si muoverà in questo senso.
Al momento l’unica certezza per il Liceo è che il contratto di affitto con la palazzina in via Lago di Molveno scadrà alla fine dell’anno.
StecaS