Giancarlo Summa è un “fuorisede” un po’ particolare. Classe 1965, cresciuto a Taranto, dove iniziò giovanissimo a fare il giornalista, da un quarto di secolo si occupa di America Latina e soprattutto di Brasile, dove andò a lavorare per la prima volta nel 1989. Dopo una lunga carriera in giornali, riviste e agenzie di stampa – tra cui l’Unità, La Stampa, Reuters – da anni lavora con comunicazione politica e istituzionale. Nel 2002 e 2006 ha lavorato per le campagne elettorali alla presidenza del candidato de Partido dos Tabalhadores (PT), Luiz Inacio Lula da Silva; ha diretto l’ufficio stampa del Global Social Forum di Porto Alegre nel 2003; ha curato la comunicazione per l’Europa della Banca Interamericana di Sviluppo (BID). Autore di vari saggi sulla politica e la comunicazione, pubblicati in Italia, Francia e Spagna, ha conseguito un master in Studi Latino-Americani all’Università Parigi III – Sorbonne Nouvelle.
Da alcuni anni Summa vive a Rio de Janeiro, dove lavora per l’ONU. Con lui abbiamo voluto scambiare qualche battuta sulle elezioni presidenziali che si terranno in Brasile domenica prossima (5 ottobre) – e che vedranno contrapporsi l’attuale presidente, Dilma Roussef, del PT, Marina Silva, del Partito Socialista Brasiliano (PSB), e Aecio Neves, del Partito della Socialdemocrazia brasiliana (PSDB). Una tornata elettorale destinata a incidere profondamente non solo sugli equilibri del Brasile, ma probabilmente sul futuro del mondo intero.
Dodici anni dopo la storica affermazione di Lula e del Partito dei Lavoratori si può trarre un bilancio (ancorché sommario) dell’esperienza di governo della sinistra in Brasile. Quali sono le luci, quali le ombre?
Dilma Roussef, presidente in carica, e Lula da Silva, suo predecessore. Entrambi sono stati fra i fondatori del Partido dos Trabalhadores (PT)Anzitutto bisogna chiarire che sia Lula da Silva che Dilma Roussef sono stati presidenti di sinistra i cui governi però hanno dovuto cercare il sostegno di maggioranze abbastanza eterogenee. Questo perché il PT non ha mai avuto la maggioranza assoluta dei seggi (nell’ultima legislatura, nonostante avesse ottenuto la maggioranza relativa alle elezioni, poteva contare su un centinaio di deputati sui 513 della Camera brasiliana), per cui è stato costretto a costruire alleanze non solo con forze di sinistra minori, ma anche con partiti centristi o senza ideologia alcuna, ma portatori di interessi particolari, spesso clientelistici. Quindi i governi a guida PT non possono essere definiti propriamente “governi di sinistra”; e le stesse circostanze politiche in cui sono sorti hanno reso inevitabilmente più timida la loro azione di riforma.
Anche con questi limiti, questi dodici anni sono stati estremamente rilevanti, soprattutto dal punto di vista sociale. Si è passati dalla tipica agenda neoliberale dei precedenti governi (privatizzazioni, tagli al welfare ecc.) a una maggiore presenza dello Stato in campo sociale ed economico, anche attraverso un rinnovato protagonismo della banca pubblica BNDES [Banco Nacional de Desenvolvimiento, ndr], i cui prestiti ormai superano quelli della stessa Banca Mondiale.
Ciò ha prodotto risultati straordinari: oltre 40 milioni di brasiliani sono usciti dalla povertà grazie alle politiche pubbliche di trasferimento di reddito alle famiglie; la fame è stata debellata, come certifica un recentissimo rapporto della FAO; l’università è diventata accessibile anche ai più poveri (e, in particolare, ai neri, generalmente discriminati) grazie ai sostegni pubblici. Da questo punto di vista, il Brasile è la dimostrazione che con politiche pubbliche ben fatte la povertà può essere sconfitta. Non solo. L’occupazione è aumentata, al punto che oggi il tasso di disoccupazione è al 5%; il salario minimo – su cui si basano sia le retribuzioni che le pensioni – è stato continuamente rivalutato e lo stesso “indice Gini”, che misura la diseguaglianza, è migliorato, anche se forse meno di quanto sarebbe stato possibile.
L’emersione dalla povertà di ampie masse di popolazione ha avuto indubbie ripercussioni economiche: l’industria automobilistica, per esempio, ha conosciuto una rapidissima espansione (e oggi la Fiat si tiene a galla soprattutto grazie al mercato brasiliano). Contestualmente, la Petrobras, l’industria petrolifera di Stato, ha aumentato esponenzialmente la produzione di petrolio, e nel prossimo futuro, grazie allo sfruttamento di un enorme giacimento ubicato in acque profonde al largo della costa di Rio de Janeiro, il paese diventerà esportatore netto di grezzo.
A beneficiare di queste trasformazioni però non sono stati solo i poveri, naturalmente. I ricchi hanno continuato ad arricchirsi sia grazie allo sviluppo dei consumi sul mercato interno sia attraverso gli investimenti finanziari (attualmente i tassi d’interesse reali in Brasile sono fra i più alti al mondo: il prime rate è dell’11%, a fronte di un tasso di inflazione del 6,5%).
Il settore della popolazione che meno ha beneficiato dello sviluppo degli ultimi anni è stata la classe media tradizionale, che ha sofferto soprattutto l’inflazione dei prezzi di tutta una serie di servizi e la nuova concorrenza per i posti di lavoro più qualificati da parte dei nuovi laureati provenienti dagli strati più poveri. Di conseguenza, l’opposizione a Dilma è alimentata soprattutto da questi settori.
A questo proposito, negli scorsi mesi in alcune piazze brasiliane sono scoppiate dure proteste, che hanno avuto un’ampia eco mediatica in tutto il mondo anche perché concomitanti con i mondiali di calcio. Cosa chiedevano i manifestanti e come ha risposto il governo Roussef?
Le manifestazioni più grandi sono avvenute in realtà nel giugno 2013, un anno prima dei mondiali. Quelle successive sono state molto meno partecipate. L’organizzazione non era in capo a un unico soggetto, quindi la piattaforma era molto variegata. Sicuramente c’era una contestazione nei confronti del governo per i servizi pubblici non all’altezza dei bisogni emergenti, e contro la corruzione e gli sprechi. Però questa nuova coscienza democratica è emersa anche grazie alle politiche dei governi Lula e Roussef: nel momento in cui i bisogni primari sono stati soddisfatti, nella popolazione è emersa una richiesta di migliore qualità dei servizi pubblici e di maggiore trasparenza della politica.
Il governo ha risposto anzitutto non criminalizzando le manifestazioni, ed elaborando una serie di proposte che però sono rimaste ferme a causa dell’opposizione del Parlamento. Per esempio, la Roussef aveva proposto la costituzione di un’Assemblea costituente per varare una riforma del sistema politico che riducesse l’impatto del clientelismo e dei potentati economici nell’elezione dei deputati, ma il Congresso non ha voluto saperne. Le questioni poste dai manifestanti sono rimaste dunque irrisolte e hanno contribuito allo scollamento fra la classe media e il PT. L’eventuale rielezione di Dilma si baserà quindi principalmente sul sostegno dei poveri. E questo è un problema per il futuro della sinistra brasiliana.
La principale sfidante di Dilma alle prossime elezioni è Marina Silva. Figlia di “siringueiros” (gli operai addetti all’estrazione della gomma dagli alberi dell’Amazzonia) e collaboratrice del popolare leader sindacale Chico Mendes, già ministra del governo Lula (dimessasi in polemica con le politiche ambientali dell’esecutivo), ma anche esponente della galassia evangelica (reazionaria e molto vicina agli USA). Chi è Marina, che molti consensi sta riscuotendo anche presso l’opinione pubblica occidentale, e qual è il suo programma di governo?
Marina Silva. Già dirigente del PT ed ex leader del Partito Verde, è stata candidata alla presidenza dal PSB dopo la morte (in un incidente aereo ancora non chiarito) del suo leader, Eduardo Campos.Marina Silva è un personaggio complesso. Come ricordavi, ha un vissuto straordinario e dal punto di vista personale è estremamente stimabile. Rispetto a Lula – che pure ha un trascorso di povertà, ma è stato profondamente trasformato dall’esperienza maturata nel movimento operaio -, Marina è molto più attenta alle questioni ambientali, ma con un approccio quasi mistico-religioso nei confronti della natura. La sua fede religiosa d’altra parte influenza molto il suo modo di fare politica. Per esempio, quando era nel governo Lula, ogni volta che si presentava una situazione di crisi, apriva la Bibbia per trovare ispirazione. Ma dal punto di vista delle politiche ambientali hanno fatto meglio i suoi successori.
Marina ha avuto già un’esperienza da candidata presidente, nel 2010. In quell’occasione ha preso circa 20 milioni di voti, impostando una campagna elettorale all’insegna del “basta con la vecchia politica, vogliamo persone nuove”. Oggi è diventata, forse senza neanche volerlo, il punto di riferimento di tutti quelli che vogliono sconfiggere Dilma e il PT: principalmente il sistema finanziario, una parte dell’agro-business (Marina non ha mai detto una parola contro gli OGM)… insomma, la destra economica. Questa ha deciso di investire su di lei, abbandonando il candidato del partito conservatore tradizionale (Navas del PSDB), in virtù della sua popolarità nella società brasiliana, in particolare presso la classe media. Poi è chiaro che i media occidentali banalizzano presentandola come “la paladina ambientalista”, ma in realtà di temi ambientali non se ne sta parlando per niente in questa campagna elettorale.
Naturalmente i settori che la stanno sostenendo ne influenzano il programma. Per esempio, inizialmente questo prevedeva una forma di unione civile per le coppie omosessuali, ma tale punto è stato ritirato su pressione dei gruppi evangelici. Sul piano economico poi regna la demagogia: di fatto Marina propone di finanziare tagli delle tasse e aumenti degli investimenti attraverso l’eliminazione della corruzione. In realtà però i suoi consiglieri economici sono tutti di estrazione neo-liberale e ciò che propongono sono semplicemente tagli alla spesa. Insomma, un ritorno alle vecchie politiche pre-Lula. E questo nonostante oggi il rapporto debito/PIL in Brasile sia solo al 35%…
Che impatto potrebbe avere l’esito delle prossime elezioni politiche sugli equilibri politici mondiali, considerato che ormai il Brasile è un protagonista della scena politica globale?
Sul piano della politica internazionale, soprattutto i governi Lula hanno trasformato il Brasile in un punto di riferimento per i paesi emergenti. In Sud America, ma non solo: basti pensare all’intensa cooperazione con Russia, India, Cina e Sudafrica (tanto che ormai si parla di BRICS). Se Dilma verrà rieletta, il Brasile continuerà a svolgere questa funzione; Marina invece ha già detto esplicitamente che occorre riattivare migliori relazioni con gli USA.
Da forza marginale a grande fattore di trasformazione (realmente progressista) del paese, cosa insegna la vicenda della Sinistra brasiliana (e del PT, in particolare) alle sempre più disorientate sinistre europee?
Anzitutto, in Brasile la sinistra, giunta al governo, ha dato una priorità evidente ai problemi dei più poveri. Questa è la lezione “numero uno”. La seconda è pensare fuori dagli schemi anche in ambito di politica internazionale. Il Brasile era sempre stato nell’orbita statunitense, al punto che un ambasciatore brasiliano negli USA durante la dittatura militare (1964-1985) coniò la formula “quello che è buono per gli Stati Uniti, è buono per il Brasile”; Lula ha avuto il coraggio di superare questa subalternità. Infine, ovviamente le politiche economiche: l’esperienza brasiliana insegna che vale la pena “tornare a Keynes”. Certo, è più semplice farlo in Brasile che non in Europa, perché siamo in presenza di un grande Stato continentale e con controllo sulla propria politica monetaria, a differenza dei singoli (e relativamente piccoli) paesi europei.
(a cura di Roberto Polidori e Salvatore Romeo)