Riceviamo e pubblichiamo volentieri un contributo di Angelo Farano
“«Borsa di carta o di plastica?» Qualche giorno addietro, prima che il progetto iniziasse, ero in fila alla cassa del piccolo supermercato sulla Tredicesima. Arrivato al mio turno, la giovane cassiera aspettava la mia risposta. La questione carta o plastica mi ossessiona sin da quando, da bambino, mia madre mi mandò per la prima volta a fare la spesa. Rigirai la domanda alla cassiera: «Qual è meglio?» «Bè, la carta tende a strapparsi», rispose la donna. «Non in quel senso», dissi. «Qual è meglio per l’ambiente?». Lei si strinse nelle spalle «Tutti dicono che alla fine è la stessa cosa, ma io preferisco le buste di plastica perché hanno i manici». Non era proprio la risposta che cercavo. […] Riutilizzo di quelle già in possesso e acquisto di una borsa di tela. Tutti quelli che avevano a cuore la salute del pianeta non giravano già con le borse di tela? No, se erano come me. Certo, negli slanci periodici di amore per tutte le creature, avevo comprato delle borse di tela, ma ora giacevano accartocciate in qualche armadio. Il mio obiettivo adesso era non solo possedere un’alternativa alle borse usa e getta, ma anche utilizzarla sempre, senza eccezioni.”
E’ un piccolo brano tratto da Colin Beavan, Un anno a impatto zero (Cairo Editore), uno dei più bei libri che abbia mai letto. Racconta in prima persona le vicissitudini che l’autore ha dovuto affrontare durante l’anno nel quale ha tentato di portare la sua vita ad avere il più basso impatto ambientale che fosse anche solo immaginabile fino ad un attimo prima di intraprendere il suo progetto. Perché tutti vorremmo un ambiente migliore e più salubre nel quale vivere; tutti ci lamentiamo di ciò che fanno gli altri – la grande industria, le istituzioni, chiunque -, ma poi noi quale autorità, quale autorevolezza abbiamo per pretendere così tanto dagli altri? Certo, i diritti enunciati nella nostra Costituzione, nei vari Trattati, ma l’autorità, la stima, il rispetto sono cose che si acquisiscono anche e soprattutto attraverso l’esempio che riusciamo a dare nella società. Soffermatevi un momento ad osservare il traffico urbano e ciò che lo circonda. Circa tre quarti delle auto viaggiano con il solo conducente al loro interno, e vengono viste passare da tanta gente sull’uscio dei negozi. Uno su tre di loro ha in mano una sigaretta e l’avrà per varie volte durante il giorno. I fumi delle fabbriche a seconda dei venti possono arrivare con più o meno intensità verso dove siamo adesso; quelli delle auto e delle sigarette sono invece una costante nella nostra giornata. Quante volte in piena tranquillità d’animo scegliamo di prendere il mezzo pubblico per la nostra mobilità? Quante volte abbiamo preteso dalle istituzioni un moderno e salutare piano del traffico, che incentivi e finanche costringa al mezzo pubblico, al car sharing o all’uso delle biciclette? In tutta Europa le vendite delle biciclette sono in costante aumento da decenni, tranne che da noi. Si chiede il rispetto della nostra salute, ma noi quante volte la chiediamo a noi stessi e a chi ci sta più vicino? In una vecchia ricerca effettuata dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano fu comparato l’emissione di PM10 di un motore diesel Euro 3 in “folle” per 30 minuti con tre sigarette accese consecutivamente e lasciate consumare in un posacenere per lo stesso tempo. L’emissione di PM10 da parte delle sigarette era 10 volte superiore a quella del motore diesel. Il ragionamento potrebbe continuare all’infinito: dalla nefanda idea della gran parte dei baristi di offrirci dell’acqua in bicchieri di plastica, alla facilità con la quale si acquista merce proveniente da paesi a noi lontanissimi, con tutto il loro carico di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente; potremmo andare ancora avanti, tanto siamo dis-abituati a non affrontare questi ragionamenti. Questo non farci carico della nostra quota di responsabilità nella sopravvivenza di questo nostro sofferente e boccheggiante pianeta. Non l’abbiamo mai fatto seriamente, ma possiamo sempre incominciare a farlo. E forse dovremmo.
Angelo Farano