Mentre l’attenzione delle forze politiche nostrane appare tutta concentrata su questioni interne (dalla legge elettorale alle presunte riforme del mercato del lavoro), la data delle elezioni europee (fissata per il 25 maggio) si avvicina. La limitatezza del dibattito su quell’appuntamento è sconcertante se si pensa a quanto incidano gli equilibri interni all’Unione Europea e le decisioni assunte dalle sue autorità sulla vita quotidiana di tutti gli Italiani. L’indifferenza dei partiti “maggiori” si associa alla superficialità che la discussione ha assunto nello spazio politico collocato alla sinistra del PD renziano. Qui il dibattito verte principalmente sul leader da sostenere come candidato alla Presidenza della Commissione – il socialdemocratico tedesco Martin Schulz (espressione delle forze della “sinistra riformista” raccolte nel Partito Socialista Europeo) o il greco Alexis Tsipras (sostenuto dal Partito della Sinistra Europea, il contenitore della “sinistra radicale”) – e sulla forma che un’eventuale lista unitaria dovrà assumere – “lista di cittadinanza” o coalizione di forze politiche e sociali. Ancora una volta si preferisce eludere questioni di merito, forse per non dover ammettere che i problemi sono molto più complessi di come appaiano – e richiederebbero dunque un lavoro ben più articolato di quello che si è disposti a fare.
La fondamentale questione che aleggia nel dibattito sull’Europa – come uno spettro che ci si guarda bene dal nominare – è riassumibile nella domanda “l’Unione Europea è riformabile?”. In relazione a questo interrogativo possiamo individuare – ovviamente forzando – due ordini di risposte espresse dalle forze in campo a sinistra.
Chi risponde affermativamente alla possibilità di riformare l’assetto dell’Unione Europea dà della crisi che ha sconvolto questa parte di mondo negli ultimi anni una lettura basata sulla “teoria della governance”. Banalizzando all’estremo, questa interpretazione pone l’accento sul fatto che istituzioni non democratiche, permeabili agli interessi del capitale finanziario (e, più in generale, a grandi gruppi di potere), hanno imposto ai popoli europei – per tramite di governi compiacenti o sottoposti a ricatto – politiche che di fatto stanno realizzando una brutale “redistribuzione al contrario”: cioè un passaggio di risorse dai ceti medi e dalle classi popolari al vertice della gerarchia sociale. Per controbilanciare questa situazione, secondo i sostenitori di questa posizione, sarebbe necessario rafforzare le istituzioni politiche dell’Unione (in primis, il Parlamento Europeo) e, più in generale, esprimere uno sforzo verso l’unificazione dei paesi UE, puntando alla creazione degli “Stati Uniti d’Europa” prospettati da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi in dal 1941. Un governo federale che risponda direttamente ai rappresentanti dei cittadini europei e controlli le istituzioni economiche (su tutte la BCE) potrebbe avviare politiche espansive per la crescita e l’occupazione, superando la logica rigorista imposta dai Trattati sottoscritti dalla fondazione dell’UE ad oggi. In definitiva, a un mercato e a una moneta unica (sebbene la Gran Bretagna, i paesi scandinavi e quelli dell’Est abbiano ancora monete proprie), corrisponderebbe uno spazio politico unificato, in grado di amministrare la realtà economica sottostante. Molti di questi contenuti li si ritrova nell’appello di sostegno alla candidatura di Alexis Tsipras sottoscritto di recente da autorevoli esponenti del mondo della cultura italiana. Lo stesso programma della Sinistra Europea rappresenta una versione meno estrema di questo modello: senza prospettare un governo federale, esso propugna il superamento dei Trattati (e, nel frattempo, la “disobbedienza” nei confronti dei loro dispositivi da parte dei paesi che ne subiscono particolarmente le conseguenze), il controllo politico sulla BCE – volto a trasformarla in “prestatore di ultima istanza” delle politiche espansive delle autorità comunitarie e dei governi – e maggiori poteri nelle mani del Parlamento.
Chi è decisamente più scettico rispetto alla possibilità di riformare l’Unione Europea parte dalla constatazione di dinamiche reali recuperando alcune categorie fondamentali della “teoria dell’imperialismo”. In estrema sintesi, la fase attuale sarebbe caratterizzata dall’offensiva dei paesi “centrali” (Germania, in testa) nei confronti delle “periferie” dell’Unione; le politiche di austerità imposte dai primi avrebbero l’obbiettivo di riorganizzare sotto la loro egemonia l’intero spazio economico europeo e creare attorno a sé, al contempo, una vasta landa di manodopera a buon mercato. In questo modo le economie centrali acquisirebbero ulteriori margini di competitività per proiettarsi su uno scenario globale dominato ormai da sistemi continentali. Alla luce di tutto questo, i fautori di tale analisi ritengono irrealistica o inefficace la prospettiva dell’unificazione e guardano ai conflitti in atto fra capitali nazionali centrali e periferici come al terreno sul quale costruire l’iniziativa politica. Essi sostengono infatti che la dialettica fra interessi ormai sempre più apertamente divergenti porterà a un inevitabile punto di rottura, al quale seguirà la deflagrazione di almeno una parte dell’assetto corrente: i paesi periferici potrebbero abbandonare l’Euro nel tentativo di riconquistare margini di competitività attraverso la svalutazione del cambio. Gli esiti di questa esplosione possono essere tuttavia i più disparati; per dirla con l’efficace formula di Emiliano Brancaccio, “dall’Euro si può uscire da destra o da sinistra”, dal momento che – in assenza di adeguati interventi politici – la svalutazione può implicare la perdita di potere di acquisto dei salari, una redistribuzione del reddito a vantaggio dei profitti e acquisizioni a buon mercato delle imprese nazionali da parte di capitali stranieri. Il “programma minimo” che Brancaccio ed altri propongono per far fronte “da sinistra” a un’eventualità di quel tipo include il ripristino della scala mobile per conservare il potere d’acquisto dei redditi da lavoro, l’intervento amministrativo sui prezzi di beni di base per impedire un travaso di ricchezze “dal basso verso l’alto” e il controllo sui movimenti di capitali per ostacolare operazioni di acquisto a prezzi di saldo del patrimonio produttivo nazionale. In questo modo verrebbe messo in discussione lo stesso mercato unico e si andrebbe verso un rafforzamento delle prerogative degli Stati in ambito economico, che imporrebbe una ridefinizione dei rapporti all’interno dello spazio europeo e persino fra singoli paesi (o gruppi di paesi) e aree extra-comunitarie.
Le questioni sollevate naturalmente non chiamano in causa la sola Sinistra italiana. La storia di quest’ultima però dovrebbe insegnare che rimandare la discussione su nodi dirimenti col tempo produce risultati catastrofici. Bisognerebbe avere dunque l’onestà di ammettere che, al di là della condivisa condanna delle politiche di austerità, al momento non esiste “a sinistra” una risposta unanime all’interrogativo fondamentale sulla riformabilità dell’UE; di più: le prospettive divergenti sono irriducibili all’interno di operazioni di compromesso politico. A partire da questa constatazione andrebbe promossa una dialettica politico-culturale serrata, in grado di selezionare posizioni efficaci nel rispondere ai problemi sempre più complessi che la fase in atto pone. L’appuntamento elettorale di maggio può essere un’occasione per avviare un percorso di questo tipo, purché si smetta di guardare il dito e ci si concentri sulla luna.
Salvatore Romeo