Le politiche attuate negli ultimi anni dai governi europei hanno generato, fra le altre cose, profonde riforme delle regole del mercato del lavoro e della contrattazione collettiva. L’obiettivo – ci è stato raccontato – era rendere più “flessibile” la gestione delle imprese per permettere a queste ultime di elevare la propria competitività, determinando così l’avvio di una crescita dell’intero sistema economico. In contropartita all’introduzione di elementi di flessibilità, si prometteva ai lavoratori e ai disoccupati l’eventuale sostituzione del lavoro perso o l’accesso a un primo impiego in virtù della nuova occupazione che sarebbe derivata da quella nuova fase di sviluppo. Niente di tutto questo però è avvenuto. Nonostante le cosiddette “riforme” abbiano, in realtà, sacrificato le tutele e ampliato la flessibilità nelle imprese al fine di favorire la loro competitività, non si è avuto né aumento dell’occupazione né crescita economica. Intanto, i governi di tutta Europa, compreso quello italiano, continuano a propinarci le stesse ricette per risolvere il problema della disoccupazione.
In una prima fase, l’invito delle autorità europee alla riduzione del costo del lavoro e all’introduzione di nuove flessibilità era insistente, ma ancora generico. Ora le misure che gli Stati dovrebbero porre in essere sono dettagliate e precise, arrivando a chiedere ad alcuni paesi precisi adempimenti, tra i quali la riduzione del salario minimo e la fissazione del salario nell’ambito della contrattazione aziendale.
Non stupiscono, quindi, le ultime riforme attuate in Italia. Queste hanno incentivato la flessibilità in entrata, grazie all’introduzione di forme contrattuali più flessibili e meno costose, consentite dalla disciplina dei contratti formativi, dai contratti di ingresso – che prevedono, per il primo periodo, la possibilità per il datore di lavoro di licenziare il dipendente senza fornire al lavoratore la motivazione e con il solo obbligo del preavviso -; inoltre si è reso più flessibile il part-time o il telelavoro. Al fine di facilitare la flessibilità interna, è stato anche esteso il potere direttivo del datore di lavoro, consentendogli di modificare l’organizzazione del lavoro, gli orari, la retribuzione e di avvalersi di strumenti di adattamento temporaneo quali la riduzione dell’orario di lavoro o la sospensione del rapporto di lavoro. Riguardo ai i licenziamenti, si è aderito alla visione – del tutto ideologica, in quanto fondata su assunti indimostrati e criticati da qualsiasi seria ricerca – secondo la quale le regole sulla flessibilità in uscita dell’ordinamento italiano fossero caratterizzate da una maggiore rigidità rispetto agli altri paesi e che, attenuando il regime di tutela contro i licenziamenti ingiustificati, fosse possibile creare una nuova occupazione e ridistribuire in modo più equo le tutele del lavoro. Il legislatore, infine, ha incentivato apertamente la contrattazione collettiva aziendale con il proposito di ridurre i livelli di tutela dei lavoratori.
Le ultime riforme del mercato del lavoro hanno comportato significative riduzioni qualitative e quantitative dei livelli di tutela raggiunti nel secolo scorso e non hanno portato alcun positivo risultato in termini di crescita economica e di benessere. Con ciò, per un verso, si attacca frontalmente un principio fondamentale dell’impianto costituzionale, ed inoltre si evoca un modello sociale che ci riporterebbe (come ci sta portando) indietro nel tempo. In questo contesto, anche l’affermazione per cui i diritti non sono mai acquisiti definitivamente, che possano regredire, appare suadente e moderna, se si assume la modernità come sinonimo di “più recente”. L’idea secondo la quale avremmo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, che non potremmo più permetterci uno stato del benessere appena dignitoso fa da riscontro a tale affermazione. Eppure, non può si può dubitare del fatto che il costo del lavoro in Italia sia comparativamente più basso rispetto ad economie che riescono ad affrontare la crisi con ben altra performance. Né si può fingere che quanto a flessibilità – anche grazie all’ impressionante quota di lavoro irregolare e di lavoro autonomo, il doppio della media europea e il triplo della Germania – primeggiamo in Europa. Prevale quindi il luogo comune, ormai fortemente assimilato dalla cultura e strumentalizzato dai settori economici che lo utilizzano quale grimaldello per lo scardinamento delle residue tutele.
A causa della spinta degli ultimi venti anni verso una marcata individualizzazione dei rapporti di lavoro e un’ampliamento della vasta tipologia dei lavoro “atipici”, vi è stata una frantumazione del lavoro e dei rapporti. Questa situazione ha prodotto la frammentazione della massa dei lavoratori in interessi materiali ed ideali profondamente divergenti e conflittuali. Su queste basi sarà sempre più difficile rappresentare su ampia scala un interesse unitario della gente che lavora, al fine di stipulare con la controparte contratti collettivi soddisfacenti. Vengono infatti contrapposti due tipi di lavoratori: quelli garantiti – che hanno, come lo definisce il sociologo Luciano Gallino, un “lavoro a numero chiuso”, quello stabile, a tempo pieno, ben retribuito, con buone prospettive di carriera, limitato a “pochi eletti” -; ed una serie di “lavoratori merce” – temporanei, in affitto, a chiamata, in altre parole precari.
Il Diritto del Lavoro si preoccupa tradizionalmente di proteggere i lavoratori, non di garantire la salute dell’economia o di promuovere l’occupazione. Alla luce del dettato costituzionale, infatti, il Diritto del Lavoro è concepito come funzionale allo sviluppo dei diritti fondamentali della persona e non allo sviluppo economico. La relazione tra il Diritto del Lavoro e le regole dell’economia è invece inevitabile, e non può essere limitato, come avviene oggi, ad un elementare meccanismo secondo il quale le autorità economiche dettano nuove regole del Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali in funzione di un obiettivo tutto interno al sistema. Di fronte al venire meno dei tradizionali argini, rappresentati dalla legislazione e dall’autonomia collettiva, il controllo del rispetto dei diritti umani fondamentali si propone quale ultima tecnica difensiva.