Ho avuto l’occasione di viaggiare per il Sudafrica appena prima della conclusione della straordinaria parabola di vita di Mandela: appena prima che la scomparsa del Presidente rimandasse al Mondo – tramite manifestazioni di vero dolore e di finta retorica –immagini di una nazione pacificata, equilibrata, che guarda con diffuso e ragionevole ottimismo al futuro. Ciò che invece ho ascoltato, visto e percepito è un universo di colori, sensazioni e immagini che nulla hanno a che fare con un paese sereno e riconciliato, con riguardo al suo passato ma anche al suo contraddittorio presente.
Una nazione moderna? Tra le varie argomentazioni retoriche usate in queste ore per descrivere il Sudafrica post Mandela, la definizione di nazione moderna risulta essere tra le più inflazionate. Molto di questo clima di generale fiducia internazionale che accompagna il Paese è indubbiamente legato all’affiliazione del Sudafrica nell’esclusivo club dei Brics: paesi con elevato tasso di crescita, abbondanti risorse naturali strategiche, dal peso geopolitico in ascesa.
Cosa ha realmente prodotto, questa modernità, in termini di condizioni reali di vita, di accesso alla ricchezza comune e di eguaglianza? Quale traiettoria complessiva la nazione arcobaleno sta percorrendo, dopo la fine del regime dell’Apartheid? Un osservatorio privilegiato per riflettere intorno a questi interrogativi è rappresentato, senza dubbio, dal sistema delle township. Le township – termine locale che si riferisce al fenomeno delle bidonville – nascono prima dell’ascesa del regime del National Party, e ne sopravvivono ampiamente al declino, continuando tutt’ora ad ospitare ampie percentuali di popolazione non bianca. Il sistema di segregazione obbligatoria per razza, sembra essere sostituito da quella informale per classe sociale di appartenenza, con risultati non troppo differenti. Ogni township continua ad ospitare un diverso gruppo etnico non bianco (neri, coloureds, indiani), in regime di separatezza pressoché totale e in condizioni di vita che assumono ogni sfumatura dal difficile all’infernale.
La township che ho attraversato, Landa – la più vecchia nell’area del Capo Occidentale – ospita più di centomila persone in pochi chilometri quadrati, in abitazioni a volte di legno, altre volte di mattoni o più spesso di lamiere, spesso prive di servizi igienici, acqua potabile, corrente elettrica. Più del 99% è nero, quasi integralmente appartenenti al gruppo etnico-linguistico Xhosa, uno degli undici del paese. Altre township sorgono nelle zone adiacenti e, in una spirale di crescente drammaticità, ospitano fino ad un milione di persone in un unico, sterminato e terribile complesso abitativo.
Proprio da Landa è interessante osservare la realtà circostante, poiché non solo rappresenta il paradigma di vita per una percentuale elevatissima di persone non bianche, ma anche perché sorge poco distante dal centro di Città del Capo: un universo incredibilmente differente. In pochi chilometri le lamiere, i rifiuti e il fango lasciano il posto, senza soluzione di continuità, all’elegante architettura di enormi palazzi commerciali, a sfarzose ville di epoca postcoloniale, ad un sistema metropolitano dall’aria efficiente, moderna, proiettata nel futuro. Dalle baracche, tra roghi di pneumatici e cumuli di pezzi di automobili, è possibile cogliere il profilo lontano ed accattivante della metropoli. Due mondi adiacenti, eppur immensamente diversi, che convivono in maniera tutt’altro che pacificata, tra frequentissimi fenomeni di ridistribuzione informale della ricchezza e conseguenti rastrellamenti.
Per tutta questa difficoltà non sembra esserci posto nei racconti mainstream di queste ore riguardanti la nazione arcobaleno. Né delle condizioni di differenziazione razziale ancora dominanti – il 65% dei possedimenti terrieri appartiene ai bianchi, che sono appena l’8.9% della popolazione- né del tema del costante aumento, dal 1994 a oggi, della differenza tra i pochissimi ricchi (spesso bianchi, ma non solo) e i tantissimi indigenti (praticamente sempre non bianchi), né tanto meno della situazione in termini di sofferenza assoluta del Paese, con un bambino su due sotto la soglia di povertà ed il poco ambito secondo posto al mondo per numero complessivo di malati di Aids.
Di tanta complessità proprio Mandela, contrariamente a quanto sembra emergere in queste ore, è stato perfetto paradigma. Riguardo al suo programma di governo strutturato intorno ai concetti di verità e riconciliazione, e più in generale alla situazione del Sudafrica contemporaneo, sembrano tutti in queste ore puntare soltanto sul secondo termine: riconciliazione. Mandela, per contro, ha sempre testimoniato che senza verità – intesa come processo collettivo di ricostruzione storica e repressione dei crimini dell’Apartheid, attuato soprattutto grazie alla Truth and Reconciliation Commission – ogni tipo di riconciliazione vuol dire semplicemente rimozione del passato e prosecuzione dello sfruttamento.
Per un uso politico di Madiba. Che della figura di Mandela si faccia un uso politico è fin troppo evidente. In questi termini il Presidente viene quasi sempre descritto – da Putin alla Merkel passando per Renzi – come una figura conciliante, rassicurante, quasi avesse biografia e portamento neutri, compatibili con qualsiasi colore politico o tendenza ideologica. In questo senso, vengono costantemente oscurati alcuni fondamentali dati biografici del Presidente: dalla fuga giovanile dal contesto familiare oppressivo, alla scelta della lotta armata clandestina – con corollario di attentati, accuse di terrorismo e pressanti richieste di dissociazione sempre rigettate al mittente.
Tutti gli sguardi che ho potuto incrociare nel mio viaggio, di questa profonda difficoltà del presente, tutt’altro che pacificato, sembrano portarne i segni. A seconda dell’appartenenza etnica dell’interlocutore di turno, e ancor di più del suo status di classe, mi è capitato di ascoltare in tema di Mandela giudizi e suggestioni radicalmente divergenti, spesso oscillanti tra i due poli del progetto politico di Madiba: dai bianchi l’accento viene spesso posto sulla necessità di riconciliarsi; dai neri, indiani, coloureds – e da tutti i gruppi etnici estranei alle arbitrarie classificazioni del regime bianco – finisce per emergere un profondo desiderio di verità, in tema di passate discriminazioni razziali, e anche i n maniera crescente di intollerabili condizioni di vita presenti.
Di questo uso politico della figura Mandela – apertamente contro lo stesso African National Congress, il partito da lui stesso portato per la prima volta al governo – ne è aperta testimonianza, per esempio, la massiccia rivolta dei minatori a Marikana di un anno e mezzo fa, con la terribile repressione armata, diretta responsabilità di Zuma, attuale presidente del Sudafrica e leader dell’ex partito di Mandela.
È proprio qui – nelle rivolte che continuano a scuotere un paese tutt’altro che pacificato e nell’uso politico che nelle insorgenze si continua a fare della figura di Mandela, anche contro il suo stesso partito – e in ogni luogo del Mondo nel quale il 99% degli sfruttati, per etnia, sesso o classe, si sollevano contro l’1% degli sfruttatori, che la figura di Presidente trova finalmente pace. Tumultuoso uomo capace di accendere gli animi dei dannati della terra, incessante martello degli oppressi contro gli oppressori e per la libertà.