La giunta Melucci ha superato lo scoglio del riequilibrio di bilancio; si va avanti (ma non poteva andare diversamente: nessuno dei membri di questo Consiglio avrebbe accettato una fine così rapida della consiliatura). Ma ormai il re è nudo ed è chiaro cosa ci si deve aspettare dall’azione amministrativa dei prossimi anni: il nulla, mentre i problemi della città incalzano.
La legge ultra maggioritaria che regola le elezioni comunali sembrava aver compiuto il miracolo: un candidato con un consenso limitatissimo, appena il 16% del corpo elettorale, si aggiudicava per effetto del ballottaggio una maggioranza stratosferica di 22 consiglieri su 32 – cui bisogna aggiungere la malcelata volontà di essere cooptata di una parte della opposizione. Il PD, partito di riferimento della coalizione vincente, con appena un 11% dei consensi poteva conquistare ben 12 consiglieri: più di un terzo dell’intero Consiglio. Teoricamente la legge maggioritaria avrebbe potuto creare tutte le condizioni per la stabilità amministrativa: la giunta avrebbe potuto così dispiegare il proprio programma cercando di colmare il divario esistente tra un non significativo insediamento sociale della coalizione vincente ed un solido insediamento nelle istituzioni al sicuro da qualsiasi colpo di coda.
Questa illusione è immediatamente caduta: anche il sistema maggioritario – che io non ho mai amato e che in buona compagnia negli anni ’90 cercai (inutilmente) di contrastare – per funzionare ha bisogno di alcune certezze. La prima è l’esistenza di alcuni strumenti di regolazione della vita democratica, quali sono (dove esistono) i partiti.
Non è quanto avviene a Taranto. In questo Consiglio i partiti non esistono: le elezioni hanno creato delle liste – tutte civiche – dai contorni incerti e dai programmi a volta roboanti, ma certamente innocuamente enunciati, nei quali i singoli candidati si sono collocati. Ma la scelta della collocazione in una o nell’altra coalizione è dipesa da una serie di incastri casuali: molti dei candidati della destra provenivano dalla sinistra, e viceversa.
Il risultato: una serie di consiglieri eletti sulla base di un consenso personale determinato dalla propria cerchia – familiare, professionale o clientelare che sia – ma non dalla adesione a un programma e a una politica.
Un Consiglio con il quale non si riuscirà mai a discutere nel suo complesso, ma che richiederà sempre una trattativa per piccole conventicole. Il nodo è venuto al pettine sin dalla prima seduta, quando si è dovuto discutere della presidenza del consiglio; si è riproposto sul tema delicato del riassetto di bilancio, dove si è vista subito la prosecuzione di un film già mandato in onda nei dieci anni della amministrazione Stefàno: un sindaco non in grado di controllare la propria maggioranza, che cerca di condizionarlo, salvato spesso dalla benevolenza (non date credito ai sensi di responsabilità) contrattata con l’opposizione. Porto? Lavoro? Ambiente? Cultura? Se rimane il tempo ce ne occuperemo: fan parte del programma.
Se questo è lo stato delle cose, non c’è da aspettarsi molto dal Consiglio comunale di Taranto, né da una amministrazione che per galleggiare, come la precedente, dovrà sempre trovare un punto su cui trattare con tutti – dal singolo consigliere al gruppo organizzato.
La parola è dunque alla città, nel suo tessuto democratico, se saprà costruire movimenti di opinione e sociali capaci di incidere anche su una istituzione così profondamente incrinata. Altrimenti, inevitabilmente, è in discussione la credibilità della democrazia a Taranto come nel paese.