A Taranto tirare a campare è un vero e proprio stile di vita. L’Ilva tira a campare. La giunta non fa altro da quando si è insediata. I giovani non hanno scelta: il libero arbitrio ha lasciato questa terra tanto tempo fa insieme a tantissimi ragazzi, che avevano ancora voglia di guardare l’orizzonte sperando in un futuro diverso. Tirano a campare gli studenti delle scuole, consapevoli che, per studio o per necessità lavorative, saranno costretti ad emigrare. Tirano a campare le imprese edilizie, che per mantenere i loro profitti continuano a costruire in periferia nonostante siano tantissimi gli stabili completamente disabitati nel Borgo e negli altri quartieri più centrali. Tirano a campare anche ai Tamburi (cos’altro potrebbero fare?) quando colorano di rosso i loro edifici in modo che non arrossiscano davanti alle ciminiere. Una finzione…
La città dei paradossi, che pian piano diventa un deserto: la superficie di Taranto è più grande di quella del comune di Milano. Eppure si continua a costruire nelle periferie, allungando la striscia abitata che per oltre 30 km va da Paolo VI a Tramontone. Periferie prive di servizi, ma state tutti tranquilli: continuano ad aprire a ritmi serrati centri scommesse e gastronomie. Una città che nel 1980 contava quasi 250mila residenti e oggi ne conta 60mila in meno, a cui vanno aggiunti altri 30mila residenti sulla carta ma fuorisede per 10 mesi all’anno. Una provincia che conta 140mila disoccupati, 12mila cassaintegrati, senza contare gli inoccupati e tutti i precari con contratti a progetto. Perché non tutti decidono di emigrare, perché non è facile lasciare gli affetti per un futuro di incognita: e allora tiriamo a campare, tra un contratto di due mesi a Teleperformance e un altro all’Auchan o all’Ipercoop. E se prima si poteva anche tirare a campare con pesca, allevamento e agricoltura, adesso ci mancano anche queste risorse base. Il mare che abbiamo attorno è finto, fittizio, quasi un ologramma: è dappertutto e rende unica la nostra città ma non ci possiamo fare il bagno, non possiamo coltivare le cozze e non possiamo pescare. Non è mare, questo. E’ come passare una vita accanto alla donna che ami senza farci l’amore: una presa in giro…
E allora succede che scopriamo (ma in fondo già lo sapevamo) che a Taranto in fondo esiste una “alternativa” occupazionale: quella del mercato del rame. Non è un mercato dove si diventa ricchi. E’ un mercato dove anzi, ci si lascia la pelle, come accaduto a un ragazzo di 23 anni l’altro giorno. Se penso a quel ragazzo mi vengono i brividi: quale disperazione, quale mancanza di prospettive ti spinge a 23 anni a cercare il tuo futuro in un cumulo di rame?
O che cerca il proprio sostentamento andando a colpire uno dei pochi luoghi che potrebbero rappresentare un trampolino di lancio per la città, il teatro Tatà, colpito questa notte da un furto di cavi elettrici per un danno di circa 10mila euro.
Non dimenticherò mai la prima volta che ho messo piede al Tatà. In cuor mio, pensavo fosse un luogo di cultura senza ombra di dubbio, visto che la compagnia Crest è un punto di riferimento culturale da anni per la città, ma non immaginavo come quel luogo, posto così sotto le ciminiere in mezzo al deserto di un quartiere come i Tamburi potesse essere un vanto per la città. Me lo sono ripromesso, semmai dovessi ospitare qualcuno nella mia Taranto, di sicuro lo porterei al Tatà, convinto di provocare stupore. Ma senza aspettare l’ospite a cui mostrare le bellezze di Taranto, dovremmo essere noi i primi a valorizzarle.
E allora cosa spinge dei concittadini ad andare a rubare proprio in uno dei luoghi dove è possibile costruire il riscatto? Un macabro mix di malvagità e ignoranza? Non credo proprio. La disperazione e il terrore per il futuro. L’orrore. E la mancanza di un’idea di comunità che possa aiutarci ad uscire da questa situazione collettivamente. Siamo tutti bravissimi ad urlare che “Taranto è bella, sono i tarantini a renderla uno schifo” senza considerare che guardandoci allo specchio vedremmo nient’altro che un distratto esemplare. Ma è anche facile, in una città il cui unico poco invidiabile record è la quantità di denaro procapite giocata nei centri scommesse dopo Napoli, non sorprendersi che queste cose accadano.
Secondo me Taranto rappresenta la più grande negazione dell’individualismo metodologico, una corrente di pensiero che si rifiuta di dare concretezza a parole astratte come la società e la comunità: sfido loro a nascere e a crescere a Taranto e a non farsi influenzare dall’ambiente sociale culturale e ambientale. Una spirale che sembra non possa avere fine.
Ma quindi, possiamo in coscienza ancora soffermarci sulla semplice dicotomia tra legalità e legittimità? Se è legale che l’Ilva produca inquinando, possiamo noi puntare il dito contro chi ruba per guadagnarsi un po’ di pane esistenziale? Cerchiamo di focalizzare invece i nostri sforzi sulla riappropriazione. Sarebbe giusto e sacrosanto pretendere un risarcimento per tutta la città da parte dei Riva e dello Stato affinché si possa tornare ad investire nelle sane alternative e nel sacrosanto diritto al reddito nel territorio dove precarietà e ricatto occupazionale la fanno da padrona. Nel frattempo intanto, riappropriamoci dei nostri diritti e degli spazi, come stanno facendo i ragazzi di officine tarantine ad esempio, che riappropriandosi di uno spazio abbandonato cercano di costruire delle alternative occupazionali ed esistenziali sane e slegate dalla malsana ricerca del profitto. O, magari, andando a rubare da chi non ha pagato per le sue malefatte: autoriduzioni di massa nei posti dove avviene la speculazione sulla popolazione. Qualcuno potrà storcere il naso, ma credo ancora che ci sia lo spazio per un percorso che liberi noi giovani da un futuro che non esiste e un presente fatto di ansie e di un continuo tirare a campare, e da chi dobbiamo riprendercelo se non da chi ci ha tolto tutto?
Ma intanto si muore: si muore ai Tamburi, si muore per il rame. Ma sono anche i vivi che muoiono tutti i giorni, annegando in una disperata monotonia che ci fa pian piano cadere nel baratro; al peggio non c’è mai fine. E noi siamo giovani che giustamente non riescono a vedere il futuro con speranza: tiriamo a campare perché il futuro lo temiamo più di ogni altra cosa. Mi vengono in mente le parole di un famoso e bellissimo film che un po’ ricalca la nostra situazione: il problema non è la caduta ma l’atterraggio. Si possono avere tredici anni di vita o quaranta, ma si è morti viventi, man dead walking, se non si possiede neanche un briciolo di speranza. E’ come vivere in un labirinto senza uscita, si raccatta quel che si può, mentre si rischia di impazzire.
Credo che l’alternativa, almeno per noi, rimane una soltanto: la riappropriazione collettiva. Altrimenti episodi come quello di questa notte saranno la normalità e la nostra indifferenza sarà solo una triste e stucchevole cornice.