Presso la biblioteca civica di Statte sabato 2 dicembre si è svolta la presentazione del libro di Juan Martin Guevara e Armelle Vincent “Il Che mio fratello”. Quella che segue non è una recensione né una cronaca, ma una semplice riflessione che quell’evento mi hanno ispirato.
Chi era il Che? Tra coloro che hanno fatto la storia del ‘900 costituisce una figura certamente tragica:quella di un rivoluzionario morto nelle mani di un potere autoritario, che stava combattendo con le armi in pugno. Un eroe, consapevole vittima del proprio coraggio, una leggenda, un mito a cui sono state dedicate canzoni, ballate una letteratura sterminate, dei film e… tante magliette, tanti tatuaggi portati da anonimi ragazzi o da personaggi famosi? Un uomo gioioso che amava la vita e la affrontava con ironia, legato alla famiglia, strambo e curioso, inquieto e coraggioso, fragile e forte insieme come lo ricorda Juan Martin Guevara suo fratello minore nel libro “Il Che mio fratello”.
La sala della biblioteca in cui si svolge la presentazione del libro si è fatta affollata di un pubblico variegato di tutte le età, che ascolta in religioso silenzio questo anziano signore che parla di sé, della sua famiglia, la cui storia sembra tratta da un racconto di Garzia Marquez. Un padre pieno di progetti avviati, interrotti, ripresi, piccoli traffici; una madre autorevole, colta e rigida ed insieme ribelle e femminista ante litteram; dei figli studiosi e vivaci, dotati come si suol dire di genio e sregolatezza, soprattutto il maggiore Ernesto, il futuro Che: “una nuvola che va viene e scompare” che, come Aureliano Buendia, promuoverà decine di rivoluzioni, ma le sue non saranno tutte perse.
Sullo sfondo il continente americano con i suoi drammi, le profonde disuguaglianze sociali, le estreme povertà e le grandi ricchezze, le città brulicanti di gente e le campagne che nella prima metà del Novecento erano ancora immense distese nel nulla. Stati autoritari che con una serie infinita di pronunciamenti militari negavano ogni forma e possibilità di riscatto: nell’Argentina segnata da 17 colpi di stato e da una stagione cruenta di repressioni, dai 30.000 desaparesidos, al Cile dove il Generale Pinochet abbatte il governo socialista di Salvador Allende e compie una delle più feroci repressioni della storia; dal Brasile dei generali “gorilas”che praticavano la tortura sui propri oppositori come documentato da studi e rapporti del tribunale Russell, a Panama del becero Noriega invischiato nel narco-traffico, al Salvador dove gli squadroni della morte giunsero ad assassinare in chiesa il vescovo Oscar Romero, al Nicaragua del regime di Somoza. Tutta l’America latina era sotto un tallone di ferro. Talvolta le forze progressiste riuscivano a vincere, ma in quel caso come una tagliola scattava una repressione violenta animata da forze interne ed esterne ai singoli paesi, dalle forze conservatrici di ciascuna nazione con il complice aiuto delle compagnie multinazionali e degli USA. A nessuno era data la possibilità di alzare la testa persino a Grenada, piccola isola di poche migliaia di abitanti – meno di S Marino – senza alcuna rilevanza economica o strategica: quando si insediò un governo di sinistra furono mandati i marines. Per questo la necessità del cambiamento passava attraverso la strettoia dell’atto rivoluzionario: la violenza del potere non lasciava intravedere altra possibilità. La rivoluzione non poteva fermarsi nel paese in cui aveva vinto perché inevitabilmente sarebbe stata repressa e strangolata dall’interno e dall’esterno, come successe a ad Allende, come è successo ai sandinisti che avevano liberato il Nicaragua dalla dittatura di Somoza. Cuba è stata assediata per decenni e Trump oggi ripropone l’embargo. Per questo Ernesto aveva lasciato il suo incarico nel governo cubano ed era andato in Bolivia. Per questo l’idea di rivoluzione non era una ipotesi folle e romantica, ma una idea politica, oggi sconfitta, ma che per molti anni fu credibile nell’America latina come nel Vietnam.
Il potere si appropria dei corpi dei suoi avversari. Voltaire nel “Trattato sulla tolleranza” descrive lo strazio dei corpi di coloro che venivano condannati. Michel Foucault in “Sorvegliare e punire”compie alcune descrizioni che appaiono quasi una parafrasi dello scritto di Voltaire: il potere strazia i corpi per impadronirsi degli uomini. Il potere si impadronisce dei corpi anche da morti: le teste dei briganti venivano esposte al pubblico per monito. I crani dei briganti studiati da Lombroso per definire la minorità biologica dei ribelli: anche i corpi possono essere utili o ingombranti sin dalla antica Grecia. Il corpo di Polinice doveva rimanere insepolto violando tutte le norme della pietà a testimonanza della forza del potere dei sovrani di Tebe su chi si ribella, ed Antigone viene condannata per aver dato sepoltura alla salma del suo sfortunato fratello.
Le autorità boliviane tergiversano: non vorrebbero consegnare il corpo del Che alla famiglia. Roberto viene mandato in giro per la Bolivia senza risposta. Poi il corpo riappare: è lì, sembra un quadro di Mantenga. Qui Juan Martin Guevara si contraddice: ha scritto un libro per riportare il Che alla sua dimensione umana,per liberarlo dal mito, perché non sia soltanto un’effige su una maglietta, perché sa che solo così il suo vero messaggio politico e culturale potrà essere conservato: un uomo che ha lottato ed è morto per un’idea grande di giustizia – ma un’idea che chi vuole può abbracciare, un’idea che ha segnato la sua vita, che gli ha fatto fare più di otto anni nelle carceri della dittatura argentina, un’idea che si può realizzare in varie forme, ma pur sempre un movimento reale dell’umanità. Ma l’amore di fratello non riesce a trattenersi e sfuggire all’immagine del Cristo di Mantenga, morto in nome di una giustizia ultraterrena. Alla fine se il Che è stato un uomo, un semplice uomo intelligente, onesto e determinato è più facile per tutti definirsi guevaristi.