Docente di Storia Contemporanea all’Università “Federico II” di Napoli, Marcella Marmo si è occupata a lungo di storia del Mezzogiorno in età contemporanea. Fra i suoi principali interessi, la figura dello scrittore e artista Carlo Levi, su cui ha di recente tenuto una conferenza a Matera e una a Taranto. L’ha intervistata per noi Valerio Lisi.
Ancora oggi a 72 anni dalla pubblicazione, “Cristo si è fermato a Eboli” continua ad essere uno dei romanzi più letti nel mondo. Quale le ragioni di questa immensa fortuna e quale importanza può assumere oggi tenere viva la memoria di questo libro ?
Innanzitutto, come ho avuto modo di dire anche nella conferenza recente di Taranto – ma già per esempio nel 2012 al convegno leccese proprio sul libro oggetto di questa intervista- devo chiarire che: Cristo si è fermato a Eboli non è un romanzo! Il genere letterario glorioso del racconto-fiction passato per tante forme e poetiche autoriali, fino all’attuale postmoderno che sempre su fiction si fonda, davvero non è adatto a questo libro. Così si esprimeva Carlo Levi: “…poi ho scritto un libro…”. Questo discorso ai giovani (che erano i nipoti e i loro amici, tra cui ho avuto l’onore di annoverarmi negli anni sessanta e settanta) valeva per il Cristo, come per Le parole sono pietre, Il futuro ha un cuore antico… Sono libri di memorialistica, in cui le (eventuali, poche) sequenze del tutto inventate, e certo il registro sempre soggettivo del racconto, non configurano la fiction in cui il romanzo ti trasferisce. Levi ti vuole portare nella straordinaria storia dei suoi viaggi, in una egostoria (ovvero storia d’Itala, e anche poi del mondo dove si trova inviato come giornalista-scrittore) che ha potuto partecipare a eventi e situazioni di Grande Storia, a partire dalle tragedie di totalitarismo confino e guerra, e proseguendo nell’ottimismo del viaggio del secondo dopoguerra. Per concludere con questa indispensabile premessa metodologica contro la dizione di romanzo per i libri di Levi: la storia sua personale si intreccia con la “grande storia” lungo tre eventi fondamentali (di cui parla continuamente dal dopoguerra in poi, come giornalista-scrittore di grido, al Senato, in interviste e ricordi svariati): la partecipazione al gruppo gobettiano dei primi anni venti che ha fondato l’antifascismo; il confino meridionale che gli ha fatto scoprire la civiltà arcaica della Lucania poi estesa come idealtipo a tutte le Lucanie del mondo; la Resistenza, con la sconfitta epocale del nazifascismo. Levi tiene molto a questi incroci della sua vita, e solo di un suo libro avrebbe condiviso la dizione di romanzo: L’orologio. Racconto anche questo intriso di memorialistica sulla Roma del 1945 in cui fu redattore del giornale nazionale del Partito d’Azione e assistette alla dolorosissima crisi del governo Parri e all’odiosa restaurazione del centralismo statuale con il passaggio a De Gasperi, assenziente l’altro volto “cardinalizio” di Togliatti… Ma la svolta politica negativa del 1945 è raccontata all’incrocio con la propria vicenda esistenziale e con l’intenzione propriamente di scrivere un romanzo con ascendenze di Proust e di Joyce.
Perché il Cristo è tuttora un long seller (ma non credo il libro più letto nel mondo)? La denuncia della miseria di un mondo pur definito civiltà contadina, si sposa con il fascino antropologico del libro, consistente sia nel racconto di usi e costumi antichi ma certo anche ‘contemporanei’, (pe es.., magismo ed emigrazione…), sia nella partecipazione distaccata ma seduttiva che Levi stesso sviluppa verso questo mondo. Come spiego nei miei ultimi saggi di cui immagino l’intervista darà notizia, senza essere un antropologo di professione Levi assume una comunicazione che nella grande antropologia di medio 900 si dice ‘osservazione partecipante’: intrattenere rapporti amicali per conoscere a fondo quel mondo e quella cultura ‘altra’. Poi sarà sempre l’antropologo/ Levi, a tradurre questa cultura nella sua monografia antropologica/ ovvero nel libro. C’è un filone di studi antropologici che si definisce “Writing Culture”, scrivere una cultura ovvero tradurla dalla sua diversità alla nostra interpretazione. Come si vede, la soggettività nella memorialistica leviana c’è, ma non è del genere fiction. E invece è interpretazione di una cultura in quanto arcaica, “altra”. Che però si racconta nella moderna contemporaneità, dunque anche nelle sue trasformazioni. Vedi l’emigrazione che ha cambiato tutto nei rapporti uomo donna… , scrive Levi a proposito della Santarcangelese! Nell’incontro arcaico/contemporaneo risiede una ragione probabilmente dell’attualità del libro (ci troviamo infatti oggi in un terribile incrocio analogo, con la globalizzazione che avvicina civiltà diverse). Purché però lo si sappia leggere, in particolare seguendo gli indirizzi di studio più recenti, e con approccio testuale, che guardi dentro il libro di là dalle ideologie politiche e il solidarismo stesso; purché si sia disposti ad accantonare quando è necessario gli stereotipi meridionalistici, limitati al valore della denuncia sociale e alla critica alla statualità oppressiva.
Nella lettera “carissimo Giulio (Einaudi)” presente nelle edizioni a partire dal 1963 del Cristo, si pensa ci sia una ottima sintesi del pensiero di Levi. Cosa ne pensa ?
La lettera all’editore riassume diversi percorsi di pensiero ed esistenziali, essendo testo denso e bellissimo merita un’analisi testuale che non si può svolgere in questa sede. A Matera il Centro Carlo Levi da alcuni anni ha un gruppo di lettura che si misura sui testi, e quindi svolge confronto sia interno sia con una possibile conferenza.
Levi si trovò dinanzi terre aride, avare, e una popolazione non solo abbandonata a se stessa ma anche incapace di ribellarsi, assorbendo nei secoli angherie e soprusi di ogni tipo. Questo libro servì a scuotere le coscienze dei lucani?
Non direi che la Lucania-Basilicata si sia scossa nel senso di ribellarsi ai suprusi (né il libro contava sulla ribellione. Evitare inoltre l’enfasi sui ‘suprusi di ogni tipo’, tutto il mondo rurale ne ha sempre subiti perché inserito in contesto politici e sociali forti esterni e anche interni a quel mondo, ma ha avuto anche le sue dinamiche culturali, demografiche…). La Lucania ha avuto le sue trasformazioni come tutto il Mezzogiorno; Matera sicuramente è stata beneficiata dal Cristo, come si sa l’immediato successo anche internazionale attirò attenzione di urbanisti, sociologi letterati e registi… Gli abitanti di Aliano si offesero, direi non senza ragione, della violazione di privacy individuale, familiare, collettiva con le tante storie raccontate e denunce di arretratezza di Levi. Certo motivate dal carattere profondamente politico del libro sul Sud, decisamente di sinistra. La Basilicata votava intanto nel dopoguerra a destra, altro che ribellarsi. L’esperienza di Scotellaro a Tricarico verifica, più che ribellione, la lotta possibile per la terra (infine frustrante) lungo la riforma agraria che con forte decisione politica nel 1950 la Dc avviò. E lo stesso Scotellaro andò in Calabria a studiare la riforma, e prima dell’improvvisa morte iniziava a lavorare nell’Istituto di Agraria di Portici con Manlio Rossi Doria. Economista agrario, già azionista e molto amico di Levi, che a sua volta lo stimava moltissimo, per la sua capacità scientifica concreta; questa qualità portò a seguire l’attuazione della legge democristiana invitando i sociologi americani a Portici. Dunque la stessa stagione delle lotte contadine si sposta da prospettive classiste a riforma economicamente sostenibile.
L’unica rivoluzione sentita dai contadini fu il brigantaggio, tante volte menzionato nel libro; un fenomeno complesso finanziato dalla corte borbonica rifugiatasi nello Stato della Chiesa, da quest’ultimo stesso e dai Francesi che vi insistevano. Cosa resta oggi nell’immaginario collettivo di quella rivoluzione?
Di nuovo è indispensabile una precisazione terminologica. Perché chiamare il brigantaggio “rivoluzione”? Rivoluzione è un rivolgimento politico globale che cambia l’assetto politico e/o sociale. Levi parla piuttosto di guerra contadina plurimillenaria che si ripete contro lo Stato dominante dall’esterno (ma nel mio ultimo scritto su Forum Italicum 2016, seguendo il metodo della lettura testuale trovo molti racconti incompatibili con la visione molto ideologica leviana della guerra antistatalista, suggerita dal programma autonomista del Partito d’Azione in cui Levi militava, e già del gruppo di Giustizia e libertà dei Rosselli). I neoborbonici, credo che esaltino la ribellione, impossibile parlare di rivoluzione per una guerriglia priva di coordinamento che i borbonici tentarono di affidare a Borjes. E’ storia nota il fallimento dei rapporti con Crocco; si trattò comunque di un dissenso sulla conduzione militare, siamo dunque sempre nel campo di guerriglia/guerra se la vogliamo nobilitare trascurando il frazionamento per bande locali, che caratterizza appunto la guerriglia. Cosa resta nell’immaginario collettivo? Non più che qualche stereotipo di eroi della difesa delle Due Sicilie, alcune canzoni manipolate con plagi disonesti, una sfida identitaria più che azzardata.
Nel novembre scorso lei ha tenuto due conferenze, una a Taranto il 25 e una a Matera il 28. Come ha percepito l’interesse del suo uditorio per Carlo Levi ?
Mi sembra di aver suscitato interesse con le mie letture non ideologiche ma testuali. Certo io invito a rileggere pagina per pagina, aspetto per aspetto, con le tensioni anche contraddittorie interne al libro, e a rinunciare a stereotipi datati.
Il torinese Carlo Levi è sicuramente un personaggio amato oggi in Lucania. Professoressa, avendolo conosciuto, come pensa che questo scrittore giudicherebbe la “Giornata della memoria dei martiri meridionali”? Ovvero come avrebbe interpretato antropologicamente questa ricorrenza ?
Risibile certo come iniziativa politica, negativa come memoria storica artificiosa da reinventare. Levi dice chiaramente che il brigantaggio era un fenomeno feroce e andava ferocemente represso. Nelle case del paese dove gli parlano spesso di brigantaggio, gli stessi contadini dicono che era raccapricciante. E’ la loro nera epopea solo perché sono i reietti e devono eroicizzare quelli che per una ragione o per l’altra hanno preso le armi…. Eric Hobsbwam nel suo Social Banditry prende questa interpretazione da Levi, che infatti cita.
Una delle motivazioni principali della pubblicazione del libro fu quella di far conoscere una parte d’Italia sconosciuta, con la sua civiltà contadina, dove pareva il tempo si fosse fermato. Non poteva dunque che essere visto come un invito alla conciliazione, all’unità del Paese, perseguibile con l’aiuto economico verso questo mondo “altro”. Adesso i tempi sono diversi ed è venuto a mancare l’aiuto diretto dello Stato: non le pare che così facendo si allontani il binomio simbiotico Unità/emancipazione tanto caro allo scrittore torinese?
Rettificherei il primo ragionamento presente nella domanda. Per l’Italia meridionale in cui Levi ha vissuto e di cui scrive, ricordiamolo, lungo la Resistenza (ovvero una guerra mondiale e un regime fascista che si spera stiano perdendo nell’inverno 1943-44) , non pensa a una conciliazione attraverso l’aiuto dello Stato, né davvero a un’unità del Paese da salvaguardare. Anche per come parla del brigantaggio, come guerra contadina millenaria anti-Stato, del resto giustamente repressa, Levi non vede l’Italia come un paese minato per eventuale ribellione del Sud, peraltro nell’età liberale a Sud come a Nord ci sono le classi sociali e non una ribellione regionalista. La Questione Meridionale di deputati e studiosi , aveva chiesto attenzione alle aree arretrate attraverso buona statualità (riforme varie, lavori pubblici e ferrovie, attenzione al paesaggio agrario e divisioni demaniali…) e legislazione liberaldemocratica (Salvemini fida nel suffragio universale). Aiuto economico non c’era in età liberale né fascista, anche la legge per l’industria napoletana del 1904 non promuove investimenti pubblici ma infrastrutture e incentivi all’industria privata. La stessa Cassa per il Mezzogiorno prima fase si dedica a infrastrutture. Quel che lei dice ‘aiuto’, corrisponde piuttosto all’intervento pubblico che lungo il boom economico 1958-63 e fino alla liquidazione dell’IRI, farà appunto investimenti industriali pubblici nel Sud , intanto il welfare e i cosiddetti trasferimenti produrranno sostegno delle aree depresse. “L’aiuto” non è dunque tematica leviana negli anni 40 e 50; sicuramente poi come presidente Filef (Federazione italiana lavoratori emigranti e famiglie) Levi incrocia anche problemi di aiuti e si può certo verificare cosa ne dice. A tutta la scrittura del Cristo, e anche per un buon pezzo degli anni 50, il programma di Levi è quello autonomista che fida nell’autonomia comunale per sottrarre il Sud alla dipendenza e allo stesso sottosviluppo. La prospettiva resta quella che viene da Carlo Cattaneo, sostanzialmente liberista ma senza essere della scuola einaudiana, e invece in versione azionista. Il discorso su contadini e luigini (svolgo ne L’orologio) va appunto nel senso di elogiare tutti i produttori (i contadini, che Levi precisa: intendo anche gli industriali…) contro i luigini (i parassiti di ogni risma, in primis i ministeriali romani, le burocrazie di cui stigmatizza il parassitismo ne L’ Orologio… )
Cosa direbbe oggi, non è il caso di chiedercelo; non abbiamo elementi coerenti di pensiero economico leviano per fargli dire alcunché. Ma in effetti, direbbe forse come economisti e pensiero comune non solo di destra, che il Sud è ancora povero appunto perché ha avuto troppi aiuti in età democristiana e seguente… Evitiamo dunque di proiettare all’indietro domande nostre e risposte presumibili su quel che ci piacerebbe ascoltare dagli intellettuali impegnati di medio Novecento: non può funzionare.
Mentre lei giungeva a Matera, il 27 novembre è scomparso il tarantino Alessandro Leogrande, aveva avuto modo di conoscerlo ?
Non lo ho conosciuto, anche se gli ho parlato rapidamente nel 2005 quando, curando per la Rivista meridiana un numero monografico “Carlo Levi: rilelture”, ho tenuto molto presente una sua ricca trasmissione radiofonica su Carlo Levi, “Un volto che ci somiglia. L’Italia com’era”, e mi feci inviare il dvd.
Valerio Lisi