Inizia l’era Mittal e noi, di fronte ad una delle multinazionali più potenti del mondo, siamo come formiche.
Roma. Sono le 8:00 circa del 6 settembre quando il ministro Luigi Di Maio arriva nella Sala degli arazzi del Ministero dello Sviluppo economico, per percorrere l’ultimo metro della lunghissima trattativa sindacale che vedrà il passaggio di Ilva alla multinazionale Arcelor Mittal. Quando vengono superate le ultime distanze sui numeri iniziali delle persone da assumere le facce sono stanche e provate: quelle dei dirigenti sindacali, quella del ministro Di Maio, e persino quella di Geert Van Poelvoord, dirigente del gruppo Arcelor Mittal che ha fama di essere un instancabile maratoneta di trattative, inizia a mostrare i primi segni di cedimento, con le palpebre che si chiudono sempre con maggiore frequenza. Sono tutti lì da 18 ore, dalle 14 del giorno prima, da quando è iniziato l’incontro. Si era capito sin da subito che non sarebbe stato facile con le ancora nette distanze tra azienda e sindacati. Ma si era anche capito, rimarcato chiaramente dall’intervento iniziale del ministro, che da quel palazzo non si sarebbe usciti tanto facilmente senza un’intesa.
Ci son volute 25 ore per arrivare alla firma dell’accordo. 25 ore passate in apnea, con il tempo che sembrava essersi fermato, senza la capacità di distinguere la sera dalla mattina, senza ricordare che giorno fosse, con tutto il resto sospeso e con in testa solo la trattativa: tra il via vai di persone, tra le ristrette, le consultazioni, tra qualcuno che sonnecchia negli angoli della sala e i delegati dei territori che sdrammatizzando scherzando sull’esito di un eventuale accordo. C’è speranza di portare a casa un buon risultato, c’è preoccupazione, c’è tensione, consapevolezza della portata enorme della posta in palio. Nonostante le difficoltà e la complessità della trattativa c’è una ferrea volontà, da parte di tutti, di chiudere al meglio la questione.
La firma definitiva arriva alla 15. Nelle dichiarazioni, prima della stipula dell’accordo, Di Maio incassa riconoscimenti e complimenti da tutti gli attori in campo; i toni sono più distesi e c’è la convinzione di aver portato in sicurezza, almeno per ora, una situazione che poteva diventare irrimediabilmente esplosiva. Tutti sono soddisfatti, tutti escono vincitori: il ministro Di Maio che risolve in pochi mesi – pur non spostandosi troppo dall’impianto del suo predecessore e venendo probabilmente meno alle azzardate promesse elettorali del Movimento – la vertenza più complessa d’Italia, che durava da sei lunghissimi anni; i dirigenti di Arcelor Mittal, che possono mettere finalmente le mani sul più grande stabilimento siderurgico d’ Europa; i sindacati, che portano a casa i risultati che si erano prefissati all’inizio della vertenza, dimostrando un’inedita compattezza e una maturità meritevole di stima.
Rispetto alla migliore proposta della gestione Calenda, le differenze sono nette: 700 posti di lavoro in più assunti da subito; la garanzia di riassunzione chiara, a fine piano, per chi dovesse trovarsi ancora nell’amministrazione straordinaria entro il 2025 – vero nodo cruciale della trattativa-; una fetta di salario in più con l’accordo ponte sul premio di risultato; qualche miglioramento sul piano ambientale, abbinato ad un restringimento ulteriore dei tempi su alcune prescrizioni aia ritenute decisive. Inoltre rimangono invariati i diritti acquisiti, compreso l’articolo 18; pressoché identico, invece, lo schema di incentivi all’esodo volontario. È un buon prezzo, considerate le condizioni date e il reale margine di manovra. È un buon accordo soprattutto – va detto con chiarezza – per quanto riguarda la salvaguardia del reddito e del lavoro.
La notizia dell’intesa è da prima pagina e rimbalza su tutte le agenzie stampa. Da più parti arrivano apprezzamenti e soddisfazione per la chiusura positiva della vertenza. Tutti contenti allora? Niente affatto. In serata da Taranto giungono echi di dissenso: associazioni e comitati si riuniscono in Piazza della Vittoria in un sit-in di protesta per chiedere la chiusura della fabbrica. I toni sono accesi soprattutto verso i 5 stelle, rei di aver tradito le promesse elettorali. Quando arriva la deputata Rosalba De Giorgi, eletta a Taranto nelle liste del Movimento, il clima diventa incandescente: la parlamentare viene pesantemente insultata da quegli stessi cittadini che i 5 stelle rivendicavano solo pochi mesi fa, con orgoglio, come la loro scorta. E invece la scorta tocca farla come sempre alle forze dell’ordine, così come avverrebbe – e in realtà più volte avvenuto – con un qualsiasi esponente del PD. La parlamentare De Giorgi, così, è costretta ad abbandonare la piazza, travolta da un clima che anche la sua forza politica ha contribuito a creare. Sono scene spiacevoli e brutte.
A distanza di qualche giorno la frattura si allarga e si complica con le dimissioni, dal gruppo dei 5 stelle, di uno dei due consiglieri comunali: ad uscire sbattendo la porta è Massimo Battista, esponente del Comitato dei Liberi e pensanti, che su alcuni temi di grande importanza – alleanza con la Lega e caso della nave Diciotti – era rimasto per mesi colpevolmente silente, a dimostrazione del fatto che la chiusura dell’Ilva sia argomento totalizzante per alcune frange della città. Eppure lo sapevano tutti. Il Movimento 5 stelle non avrebbe chiuso l’Ilva. Non l’avrebbe chiusa neanche se fosse stato da sola al governo, neanche se non ci fosse stato il famigerato “delitto perfetto”; quelle, è evidente, sono solo scuse buone per difendersi dalla propaganda avversa. Allo stesso modo affermare, quasi come una giustificazione, che prima o poi la fabbrica verrà chiusa equivale a dire che prima o poi si muore. In giro sono anni che si sente dire: “l’Ilva non chiuderà mai” o, al contrario, “prima o poi l’Ilva chiuderà”. Ma quello che sapevano tutti è che l’Ilva non avrebbe chiuso ora, non poteva chiudere ora, con buona pace di tutte le promesse elettorali, susseguitesi da più parti in questi anni, che andavano dalla chiusura immediata a quella progressiva, fino ad arrivare a diversi piani “salva Taranto”, nessuno dei quali pienamente credibile e attuabile al momento.
E allora perché ci si apettava la chiusura? Perché si è deciso di lacerare Taranto in nome di un evento che tutti sapevano impossibile da realizzarsi? Perché si è voluto ridurre tutto a una divisione tra chi voleva la fabbrica aperta e chi la voleva chiusa?
È tutta qui la debolezza di una comunità lacerata nel profondo, di un ambientalismo radicale che, da un certo punto in poi, ha subito una metamorfosi, scaricando le competenze e la veduta di insieme per affidarsi ad una campagna pubblicitaria che ha usato come sua unica argomentazione l’equazione “fabbrica uguale morte”. Un movimento per larga parte radicalizzatosi e compattatosi – ma mai del tutto – dopo il due agosto del 2012; che ha unito settori diversissimi della città sotto l’unico obbiettivo della chiusura di una fabbrica che dà lavoro a 11.000 persone. Un movimento che ha sempre trattato la questione occupazionale come un di più, come un peso, come un ostacolo al raggiungimento dell’obbiettivo; che spesso ha puntato il dito contro i lavoratori; che ha tacciato di essere “assassino” e “complice” chiunque si battesse per un idea diversa, a partire dai rappresentanti dei lavoratori. Un movimento ormai abituato ad usare, come sua arma principale, l’insulto e la denigrazione di chi la pensa diversamente, la cultura dell’odio e del sospetto che prevarica le argomentazioni, con un richiamo costante ad una maggioranza che nei numeri non è mai esistita, così come dimostrano tutte le consultazioni susseguitesi fino ad oggi (a partire dal referendum consultivo sulla chiusura della fabbrica, fino ad arrivare all’ultimo voto politico, che ha visto la vittoria dei 5 stelle a Taranto col 47%: un dato che però si può facilmente leggere come una richiesta travolgente di cambiamento e non come la mera volontà di chiusura della fabbrica, a meno che non si voglia pensare che ci sia una fabbrica da chiudere in tutt’Italia).
Anche in fabbrica il dato è chiaro: al netto dell’affluenza non altissima e di alcune sterili polemiche studiate ad arte per creare dissenso, il voto sancisce, con una schiacciante prevalenza di Sì, la validità dell’accordo, a Taranto come in tutti gli altri stabilimenti del gruppo. Così, alla fine, chi si sentiva avanguardia si riscopre oggi come il miglior alleato della conservazione: inutile, ininfluente, un ostacolo all’unità della città tutta, un cane che abbaia rabbioso, ma capace di mordere solamente chi si batte per gli stessi obiettivi ma da una visuale diversa. E non sarà la rabbia cieca e fine a se stessa sputata nelle piazze a far cambiare le cose.
A Taranto inizia l’era Mittal, e a casa non si è portato quello che si voleva veramente, ma solo quello che si poteva: il controllo pubblico della azienda, un cambio del ciclo produttivo che limiti o elimini l’uso del carbone, un controllo preventivo sui danni sanitari, una parte del profitto destinato alle comunità, sono cose che non ci sono o sono blande. L’accordo è probabilmente migliorativo, non di certo risolutivo.
Taranto intanto continua ad essere una comunità divisa, incapace di battersi per pochi obbiettivi raggiungibili e comuni, incapace di battersi per coniugare salute e lavoro.
Come un assembramento di formiche che, colte da poche gocce d’acqua – l’avete mai notato? –, corrono frenetiche, si disperdono, sembrano impazzite, come se perdessero all’improvviso quel senso di comunità che le contraddistingue; e corrono veloci avanti e indietro, senza una direzione, senza una meta, non più capaci di essere formiche. Così noi. Per un pezzo di pane e per una boccata d’aria pulita.