Registrare i cambiamenti nel lessico pubblico di un determinato luogo sembra essere una buona occasione per riflettere su alcune caratteristiche emergenti del dibattito politico di quello stesso territorio. In questo senso, il vocabolario politico tarantino negli ultimi anni sta subendo metamorfosi rilevanti, tali da incidere su alcune caratteristiche fondamentali dello stesso. Per esempio, è diventato pressoché impossibile intervenire sulle tematiche centrali della politica locale senza possedere un vocabolario minimo in tema di ambiente e di organizzazione di fabbrica.
Tra le parole che hanno caratterizzato, negli ultimi anni, l’evoluzione della comunicazione politica tarantina un posto di rilievo è indubbiamente occupato dal termine partecipazione che, per diffusione trasversale agli schieramenti e per l’importanza delle tematiche sulle quali insiste, sembra necessitare di un’urgente riflessione collettiva. Infatti, nel corso degli ultimi anni è divenuto pressoché impossibile imbattersi in un discorso pubblico senza incrociare proclami, invettive ed esortazioni in tema di partecipazione dei cittadini al futuro della città. Anche per questa ragione, sembra utile provare a riflettere allo stesso tempo sui pericoli e sulle potenzialità che accompagnano questa diffusa retorica.
In relazione alla tematica in oggetto, un primo limite che in genere l’accompagna è collegato all’inflazionato utilizzo del vocabolo nell’ottica di un eterno effetto annuncio. Da questo punto di vista, la partecipazione, più che una pratica di rivendicazione che insiste immediatamente sui disagi e sui desideri delle soggettività, è sempre descritta come un evento futuro che, da qualche parte al di là della linea dell’orizzonte, si autorealizzerà. In questi termini, i costanti proclami e inviti a partecipare raramente si interrogano sui meccanismi che possono facilitare o ostacolare il reale accesso alla politica di chi, per esempio, deve fare quotidianamente i conti con il peso della crisi economica e ambientale che affligge la città. Occorre precisare che in termini di reale partecipazione nelle dinamiche sociali della città c’è stato – e c’è ancora – chi, al posto di invocare ed esortare, ha innovato e alimentato una pratica di partecipazione reale, fatta di donne e uomini che si incontrano e cooperano intorno a singoli obiettivi condivisi. Nonostante ciò, l’approccio complessivo in relazione alla tematica in oggetto fatica ad assumere i connotati di una riflessione collettiva intorno ai meccanismi che escludono gran parte delle soggettività dalle dinamiche politiche, anche da quelle dal basso.
In aggiunta, si registra un utilizzo molto spesso ideologico del termine. In questo senso, la partecipazione è il polo positivo che si descrive come contrapposto ed incompatibile con il polo negativo, rappresentato dal sistema della rappresentanza politica e sindacale. Questo rapporto dialettico tra i due mondi produce una relazione di dipendenza (ancorché per contrapposizione), con un carico decisivo di rancori, frustrazioni e passioni tristi che non consentono l’emergere di un discorso autonomo, affermativo e non dialettico. E, sulla scia di quanto sottolineato in precedenza, cercando di superare la palude dialettica costituita dal partecipazione vs rappresentanza – che anche a Taranto non sembra aver prodotto passi in avanti significativi – sarebbe interessante provare a porre la crisi della rappresentanza (altra locuzione inflazionata a queste latitudini) più che come elemento di rivendicazione ideologica, come dato di realtà dal quale partire per aprire un dibattito serio sulle forme dell’organizzazione politica al tempo del precariato.
Inoltre, in riva allo Ionio il termine partecipazione viene spesso praticato in maniera astorica (e, qualche volta, apolitica): in questo modo, l’immenso potenziale della tematica in oggetto finisce spesso, invece, per rappresentare un magma indistinto per tendenze e prospettive, al quale si riesce facilmente ad iscrivere anche chi, per cultura politica e prospettive, dovrebbe rientrare piuttosto nel’1% di chi gestisce i nodi del potere economico e politico. Ricostruire – almeno per capitoli – la traiettoria politica che questo termine ha percorso almeno nell’ultimo decennio, in un filo conduttore che, da Seattle a Genova (con Taranto protagonista attiva di quella stagione), passa per le mobilitazioni dell’Onda e i referendum su acqua e nucleare, permette di superare altri due assiomi inflazionati e fuorvianti: che il tema della partecipazione abbia a che fare soprattutto con la rete – e non con il reale contatto tra soggetti e corpi che, materialmente, si incontrano, si conoscono e si legano – e che Grillo sia il padre nobile del termine.
Sembra essere infine interessante provare a riflettere su chi, allo stato attuale, può permettersi di partecipare al dibattito politico, e su quanto la politica, intesa in senso lato, sia diventata incompatibile con le vite dei più. È evidente come non sia più possibile parlare di partecipazione senza porsi il problema dei soggetti che dovrebbero metterla in pratica, e senza immaginare una pratica politica che – anche e soprattutto a Taranto – si ponga il problema di liberare il potenziale sovversivo della partecipazione, dentro e contro la precarietà, dal punto di vista del diritto al reddito e all’autodeterminazione della propria esistenza. Una riflessione collettiva in questo senso – che sappia affrontare anche il fondamentale tema di quali siano i meccanismi che consentono una pratica reale della democrazia diretta – ci permetterebbe di tenerci alla larga dal rischio paventato dai Tiqqun, al quale siamo allo stato attuale tutt* esposti: in seno alla comunità terribile l’informalità è il mezzo più appropriato per la costruzione inconfessata di impietose gerarchie.