Riceviamo e pubblichiamo un interessante contributo di Serena Fiona Taurino, dottoranda in Economia presso l’Università di Roma-Tor Vergata
La decisione annunciata nei giorni scorsi dal leader francese Hollande di ignorare i vincoli di bilancio europei e di rimandare il rientro del rapporto deficit/PIL al di sotto del 3% può essere uno di quei passi nella storia che sanciscono la fine di un sistema. Nel nostro caso quello della austerità europea basato sul Fiscal Compact.
In Italia, invece, il Presidente del Consiglio nel mentre applaude i cugini francesi, si affretta in rassicurazioni sul fatto che l’Italia resterà fedele alle misure di rigore. Anzi, smantellerà il “totem ideologico del art. 18” e “libererà” l’ingessato mercato del lavoro italiano. Rigore, riforme e “estensione dei diritti universali” a tutti i lavoratori. La ricetta magica per far uscire il Bel Paese dalle acque stagnanti della recessione. Ed è tutto un fiorire di discussioni sui social network e appelli mediatici affinché l’Italia adotti la linea del rigore seguendo l’esempio del perfetto “modello tedesco”.
Ma è davvero così?
Partiamo dal famoso 3%. Il rapporto deficit pubblico/PIL diminuisce soprattutto quando c’è una strategia efficace e chiara per la crescita, ovvero per il PIL. Fatto questo sempre omesso dai rigoristi, che si limitano a richiedere riduzioni del deficit. Ciò che conta del deficit pubblico, infatti, non è tanto il suo ammontare, quanto piuttosto le sue componenti. Se esso è composto da costitutivi affatto strategici, il suo aumentare è il sintomo di bassa crescita e disoccupazione crescente.
Ma cosa si intende per “strategia efficace per la crescita”? Significa che se il focus delle politiche economiche non si sposta dal “magico 3%” all’analisi degli investimenti necessari per far aumentare l’occupazione e generare crescita, i Paesi europei più deboli continueranno a restare intrappolati in questa spirale viziosa. Per dirla in termini semplici, significa investimenti in aree strategiche con l’obiettivo di generare crescita e aumentare la produttività nel lungo periodo.
Esattamente ciò che è stato fatto in Germania negli ultimi 20 anni, se non di più. Risultato: crescita e occupazione sono aumentate arrivando addirittura a far parlare di “miracolo tedesco”, mentre l’Italia ha vissuto esattamente l’opposto, perché carente di una visione altrettanto strategica. Ma non è solo questo.
Bino Olivi ne “L’Europa difficile.” fa notare che la genesi della Comunità Europea si è “modellata”, sino all’Atto Unico, sulla struttura duale della economia tedesca: industria in regime di forte e libera concorrenza e infrastrutture agricole e dei servizi – banche, assicurazioni e lavori pubblici – amministrate. La soppressione dei vincoli alla circolazione nel campo dei beni strumentali non ha fatto altro che affermare ancor meglio il vantaggio comparato delle industrie tedesche.
Naturalmente questa situazione era dovuta al fatto che la Germania supportava il peso prevalente nelle finanze comunitarie, ma non c’è dubbio che i vantaggi della integrazione sono stati ben superiori agli apparenti svantaggi relativi. Anche dopo l’unificazione, quando i costi di recupero della ex Germania dell’Est diventarono onerosi, si trovò il modo di utilizzare al meglio la “struttura dualistica” con banche di investimento pubbliche, capaci di fornire “capitali pazienti”[1] a un sistema produttivo che si specializzava sempre di più in settori strategici e verdi. Contemporaneamente si creò un sistema di welfare robusto ed efficiente che sostenesse la svalutazione interna operata per fronteggiare la disoccupazione e i costi della riunificazione.
La bravura degli “architetti sociali” tedeschi è stata la loro visione “olistica” del sistema produttivo. La Germania ha investito in modo massiccio e mirato in aree fondamentali come l’istruzione, la ricerca e la formazione: se si guarda ai dati macroeconomici tedeschi, si legge una delle spese più elevate in Ricerca & Sviluppo. L’assetto delle grandi industrie, inoltre, vanta una organizzazione aziendale fra le più democratiche e partecipate del mondo.
Le “lezioni” sull’ingessato sistema italiano dimenticano di dire che la Germania ha un sistema di tutele molto più efficace del nostro e che l’idea della rigidità del mercato del lavoro italiano è frutto di un errore di calcolo dell’OCSE, che ha considerato il trattamento di fine rapporto come una indennità per il licenziamento.
Francescantonio Garippo, membro del Consiglio Aziendale della Volkswagen da trenta anni[2] fa notare che il Consiglio Aziendale «rappresenta l’organismo per la salvaguardia degli interessi dei lavoratori dipendenti nelle aziende.» Vigila affinché vengano rispettate le leggi che regolano i rapporti di lavoro, il diritto di co-decisione, i contratti collettivi, il diritto di informazione e cooperazione. C’è anche un altro organo che garantisce il reale “equilibrio di responsabilità e di potere” all’interno delle azienda: il Consiglio di Sorveglianza. Istituito dalla “Legge sulla cogestione” del 1976 (!), questo organo ha al suo interno rappresentanti del capitale e dei lavoratori in una posizione del tutto paritetica.
E quali sono i suoi “doveri”? Controlla l’amministrazione dell’impresa; ha il diritto di prendere visione e di controllare i libri, gli scritti e il patrimonio; indice l’assemblea generale; approva l’istituzione e la soppressione di filiali, il trasferimento delle sedi produttive, la fondazione, la liquidazione o la vendita e l’acquisto di altre imprese, l’introduzione di misure sociali permanenti all’esterno delle regolamentazioni ottenute su accordo aziendale.
Dice Garippo, in sintesi: «Certo che l’azienda può licenziare, ma deve motivare e noi approvare». Proviamo a chiedere a Marchionne cosa ne pensa?
Un mondo perfetto? No, di certo. Il recente rapporto della Commissione Europea parla di un Paese dove il salario minimo orario ancora non è stabilito per legge, dove il dualismo è evidente anche fra settori: a valle di un settore manifatturiero forte e produttivo, c’è un settore dei servizi che sconta una produttività ben al di sotto della media europea[3]. C’è poi la questione dei mini-jobs, per i quali « si è riscontrato un progresso limitato nel prendere misure che facilitino la transizione a forme di impiego soggette a contributi sociali completi.»[4] E poi il surplus proveniente dall’export che supera il vincolo europeo del 6% sul PIL e che secondo la Commissione Europea richiede «monitoraggio e azione politica». Questo perché «l’attuale saldo delle partite correnti tedesche ha registrato in modo persistente un surplus molto elevato, …, con un consistente ammontare di risparmio investito all’estero». Sintomo questo del fatto che «la crescita interna è rimasta debole e le risorse economiche potrebbero non essere state allocate in modo efficiente».
Un pamphlet contro il modello tedesco? No di certo. Solo semplici considerazioni su dati di fatto, per dire che quando si vogliono utilizzare modelli di riferimento occorre analizzarne la struttura nel suo insieme.
La decisione di Hollande sembra la presa di coscienza di uno stato di crisi, di un fallimento, quello di regole di sistema che non funzionano più, perché il mondo per il quale sono state costruite è profondamente cambiato. Le politiche di austerità e di svalutazione salariale hanno acuito la malattia che si proponevano di curare: i paesi della periferia europea hanno i conti fuori controllo, la crescita non c’è, la situazione debitoria si è paradossalmente aggravata e gli squilibri fra paesi si sono approfonditi, facendo rinascere nazionalismi e territorialismi.
Non si tratta quindi di distinguere fra “buoni” e “cattivi”. Si tratta di capire se la volontà di unire paesi profondamente diversi è rimasta la stessa di anni fa. “L’Europa difficile.” È un gran bel titolo. Nelle seicentocinquanta pagine di testo si legge infatti la storia di un processo affatto scorrevole, con passi enormi, arresti e defezioni (come non ricordare la Lady di ferro e le sue battaglie?). Tuttavia in passato l’Europa è riuscita a esprimere il meglio di sé proprio nei momenti difficili. Speriamo che anche questa volta accada lo stesso.
Serena Fiona Taurino
[1] Per approfondimenti si veda: Mazzucato M., “Lo stato innovatore”, Laterza, Bari.
[2] Intervento tenutosi in occasione dell’evento “Il modello tedesco”, organizzato dalla Associazione “Lavoro &Welfare”, 2 ottobre, Roma.
[3] COUNCIL RECOMMENDATION of 8 July 2014 on the National Reform Programme 2014 of Germany and delivering a Council opinion on the Stability Programme of Germany, 2014 – pubblicato su Official Journal of the European Union del 29/7/2014. Scaricabile da: http://goo.gl/UshTTI
[4] Ibidem. Mia traduzione.