«L’operazione progettuale di integrazione tra vecchio e nuovo in una ritrovata dimensione paesaggistica vuole contribuire a quella cultura del recupero, di cui la città di Taranto sta vivendo un intenso momento […] L’intervento contribuisce a realizzare nel contesto unitario dell’ambiente e nell’accezione del riuso dei luoghi, la particolare visione di un restauro urbano che osserva regole e metodi del restauro conservativo in rapporto a segni di assoluta novità, proponendosi in tal modo come esempio di realizzazione possibile in materia di salvaguardia e valorizzazione urbana della città storica.» (N. Carrino)
Nicola Carrino, scultore e urbanista tarantino, classe 1932, è scomparso il 14 maggio scorso. Viveva nella capitale, oramai da decenni, e dal 1993 era accademico di San Luca, la prestigiosa istituzione (di cui è stato anche presidente per il biennio 2009-2010) nata dalla trasformazione, tra Cinquecento e Seicento, dell’antica Università delle Arti della Pittura di Roma. Artista raffinato, comprende subito le enormi potenzialità espressive di materiali come ferro e acciaio, le cui proprietà riflettenti ne rendono particolarmente felice l’applicazione a contesti diversi, creando una sorta di fusione e compenetrazione dei suoi costruttivi trasformabili con l’ambiente circostante. Tra il 1983 e il 1992 è impegnato nella riqualificazione di Piazza Fontana a Taranto e il risultato di quell’intervento è da subito oggetto di pareri contrastanti: un po’ per la naturale propensione dell’arte contemporanea a respingere lo spettatore, un po’ – va detto – per una percezione della stessa non ancora pienamente matura sulle rive dei due mari. E, ancora, una tensione all’autodistruzione, storicamente tarentina, che colloca questo risultato di Carrino, artista considerato tra i grandi maestri dell’arte del Novecento, in una posizione di costante precarietà, come se lo si potesse, da un momento all’altro, rimuovere. Come rimosse sono state tante, troppe testimonianze del passato di questa città.
Si potrebbe fare un lungo elenco tra occasioni mancate, testamenti artistici, percezioni distorte e interventi traumatici che hanno minato, in maniera talvolta irreversibile, il percorso verso la crescita culturale della città (e non solo in relazione alle arti visive). Nicola Carrino e il suo intervento di riqualificazione di Piazza Fontana sono finiti nel tritacarne del dibattito pubblico, tanto che in alcuni contesti è stata addirittura proposta la sostituzione del monumento con altro. Proprio lui, con la sua storia, con la sua opera più rappresentativa. Proprio lui, che oggi sono tutti si affrettano a inserire nel pantheon dei “grandi tarantini”, dopo averlo ignorato per decenni. E i frutti di questo snobismo sono tutti leggibili sulla sua opera: dal pattume costantemente ospite delle vasche all’imbrattamento dei moduli e del pavimento, sino alla totale assenza di qualsiasi riferimento – fosse anche solo una targa, un cartello – a cosa sia quell’intervento.
Eppure, il risultato urbanistico Carrino lo ha ottenuto: ha recuperato la piazza e la sua vivibilità, ha mantenuto la funzionalità della fontana, ha conservato l’antico ed è intervenuto, attraverso il suo linguaggio e i nuovi materiali, a creare una sintesi tra elementi storici, contesto e la contemporaneità della città, ovvero la sua trasformazione in una realtà industriale. Ora, questo è l’aspetto che la rende invisa a molti tarantini che hanno individuato nell’acciaio il nemico giurato.
Ma l’opera d’arte è figlia del proprio tempo e, per quell’epoca, la piazza di Carrino è un esempio di rara chiarezza di idee, applicazione rigorosa di regole geometriche (che noi percepiamo sottoforma di ritmo) con le vasche concentriche; i grossi moduli in acciaio che costruiscono ora un argine al degrado circostante, ora un sostegno per i resti della fontana antica o che ricalcano l’originario condotto che portava l’acqua alla fontana e, contemporaneamente, guidano l’occhio verso i quartieri operai. Quello che, dunque, Carrino lascia a Taranto è, oltre a un monumento, la fotografia di un’epoca: quella in cui c’è ancora dell’entusiasmo nei confronti della siderurgia, dell’acciaio di Stato. Di lì a poco ci sarebbe stato il passaggio della fabbrica ai Riva e il lento smantellamento di un sistema, della classe operaia e poi il disastro ambientale e le sue ripercussioni sulla salute dei cittadini, con conseguente spaccatura della già sfilacciata società, il ricatto occupazionale e tutte le cose tristemente all’ordine del giorno almeno dal 2008. Tant’è che, nel 2013, Carrino stesso ammette che l’ottimismo iniziale nei confronti della siderurgia aveva purtroppo lasciato, anche in lui, spazio all’amarezza per come la situazione fosse sfuggita di mano sotto tutti i punti di vista.
Ma non si può, nonostante gli strascichi industriali, lanciare una damnatio memoriae sulla Fontana: non lo si può fare perché, oltre che opera d’arte conclamata, è documento al pari di qualunque altro documento. E, in quanto tale, è materia viva sulla quale interrogarsi, riflettere, darsi risposte sul presente ma anche sul futuro. Non lo si può fare in una città che insegue il sogno di darsi una dignità culturale. La spasmodica ricerca di una identità nuova rischia con il finire per inghiottire – e, talvolta, distruggere – quella stratificazione storica che è essa stessa identitaria e che può essere riscoperta e rivelata attraverso la convivenza armonica tra passato e presente, non tramite la rimozione di quello che “non piace” a qualcuno e che, comunque, è memoria. La storia ci ha consegnato numerosi esempi di questa cecità: uno di quelli a noi più prossimi è l’abbattimento del campanile medievale di San Cataldo, sostituito anziché riconsolidato.
Nicola Carrino è scomparso e oggi lo piangono un po’ tutti. Sarebbe stato bello vedere un eguale interesse per la persona e per l’artista mentre era in vita. Ci auguriamo che la mestizia che attraversa le pagine web e le colonne di giornale in questi giorni lasci presto spazio a un impegno concreto per la riqualificazione di Piazza Fontana. Che non vuol dire musealizzazione ma, semplicemente, convivenza pacifica con il monumento. Perché quella forma, per quanto ancora incredibilmente potente, appartiene al nostro presente ma anche (già) al nostro passato. E non occorre che passino secoli tra noi e un’opera d’arte per farcene percepire il pregio e l’importanza di continuare a tenerla in vita. L’impegno comune nel rispetto del luogo – e magari quello dell’amministrazione per una migliore valorizzazione (non ci vorrebbe poi molto: un cartello illustrativo, qualche faretto, una buona manutenzione delle aiuole e delle vasche) – è l’unico modo, concreto, di rendere omaggio al maestro Carrino che ci ha lasciato in eredità il manifesto del suo pensiero.
StecaS
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Per la riqualificazione di Piazza Fontana si veda Piazza Fontana – Taranto. Riassetto urbano 1983-1992. Intervento plastico nuova fontana-scultura. Progetto Nicola Carrino, A. A. M. Architettura Arte Moderna Roma, 1992, dal quale è presa la citazione iniziale.
Per l’attività di Carrino si veda
https://www.progettoarte-elm.com/artisti/nicola-carrino
Diversi sono i contributi sulla figura di Carrino ed è possibile seguire l’evoluzione della sua ricerca attraverso i numerosi cataloghi delle sue opere, oltre ai suoi scritti dei quali si ricorda almeno il recente
N. Carrino, Forma urbana della scultura: costruttivi decostruttivi ricostruttivi, Spilimbergo 2011, pubblicato in occasione della mostra tenuta presso la Fondazione Aldo Furlan nel 2011.
Alcuni link utili:
http://www.acciaioartearchitettura.com/2008/10/nicola-carrino-2/
https://www.accademiasanluca.eu/it/accademici/id/99/nicola-carrino
http://www.siderlandia.it/2.0/madaro/