Ha fatto molto scalpore la notizia della decisione presa dal Consiglio archeologico centrale greco (KAS) di non permettere alla casa di moda Gucci, nonostante lauto contributo in denaro (56 milioni di euro), di far sfilare la propria collezione nell’Acropoli di Atene: «Il valore e il carattere dell’Acropoli è incompatibile con un evento di questo tipo», chiosano le autorità greche.
Una decisione che naturalmente, in un Paese come il nostro abituato a considerare il patrimonio come «petrolio», appare straniante (più diffusamente, per le motivazioni, si veda qui; si rimanda invece a T. Montanari, “Privati del patrimonio”, Einaudi 2015, per approfondimenti sulla gestione del patrimonio in Italia negli ultimi anni).
La Grecia ci dice che non tutto è in vendita, che qualcosa resta ancora fuori dalle logiche esasperanti del mercato: e sono i valori dell’umanità. L’Acropoli dunque, proprio per il suo valore di patrimonio dell’umanità e di simbolo della democrazia non può, secondo le autorità greche, prestarsi a fare da “sfondo” a un’iniziativa commerciale. E quando il Direttore del Museo dell’Acropoli, Dimitris Pantermalis, dice «Non abbiamo bisogno di pubblicità» dà un altro pesante colpo alle politiche all’italiana che tendono a “valorizzare” i cosiddetti “grandi attrattori” mentre tutto il resto cade nel dimenticatoio, quando non crolla (come sta avvenendo per il patrimonio umbro e marchigiano colpito dal sisma): il “grande attrattore” non ha bisogno di essere continuamente proposto in vesti differenti o, addirittura, manomesso, spesso lasciando in secondo piano la tutela (ed è esemplare per tutto questo il Colosseo, tra progetti di ripavimentazione e atti vandalici, rivendicazioni sindacali e cene di gala).
Una lezione dalla quale ci si sarebbe attesi una meditazione, lunga e profonda, sulla deriva che in Italia ha preso la valorizzazione, ridotta alla conta degli ingressi nei Musei e nelle aree archeologiche e dell’incasso del giorno; magari avrebbe potuto essere recepita, finalmente, l’idea che la valorizzazione non è una potatura, ma una semina a lungo termine; che cultura – lo dice l’etimologia stessa della parola – è “coltivare”, non sradicare, espiantare, snaturare; e i frutti si vedono, col tempo, nella crescita della società, a partire anche dal patrimonio. Ma l’Italia della “valorizzazione” franceschiniana ha prontamente risposto da par suo.
Ed ecco che a candidarsi a fare da “sfondo” alla sfilata è la Valle dei Templi di Agrigento, già teatro, lo scorso anno, di una cena di Google (la cifra di 100.000 euro, incassata per la serata, appare risibile in confronto a quella proposta da Gucci all’Acropoli). Come ci tiene a specificare il Direttore del sito, Giuseppe Carmelo Parello, «da noi solo bambini e scuole entrano gratis. Per queste iniziative bisogna pagare, e pagare tanto». Si fa un rapido cenno al «rispetto assoluto dei luoghi e la possibilità per il pubblico di visitare la Valle prima e dopo la sfilata» e al «fattore decoro», ma si aggiunge anche che lo stile di Gucci è di per sé una garanzia e di certo «se qualcun altro ci chiedesse di fare sfilare una pornodiva non accetteremmo». Della salvaguardia di valori comuni, della dignità del patrimonio non se ne registra – almeno nell’intervista rilasciata a La Repubblica – traccia. Il punto focale è il ritorno di immagine. Come se la gente che vive ad Agrigento o ci si rechi in visita non vada comunque a vedere la Valle dei Templi o, peggio, ci vada di miglior piglio sapendo che ci ha sfilato Gucci.
Ma dall’inopportunità al grottesco il passo è breve.
Immancabilmente dalle sponde dello Ionio – forse non paghe della questione della statuetta bronzea ripescata dalle acque, presentata in gran pompa come esemplare del IV secolo prima ancora di avere il parere della Soprintendenza, che ha successivamente escluso l’interesse archeologico del manufatto – si solleva la domanda: «Perché non organizzarla a Taranto?».
A lanciare la proposta è Piero Bitetti, Presidente del Consiglio Comunale di Taranto (e più volte indicato come possibile candidato sindaco alle prossime amministrative), già protagonista di iniziative quali la candidatura della città dei due mari a Capitale Italiana della Cultura – all’epoca era candidato al consiglio regionale nelle liste del PD – con gli esiti che tutti, tristemente, conosciamo.
Dice Bitetti: «Il capoluogo ionico non è Atene ma la nostra città – come tutti sappiamo – rappresenta un luogo straordinario che esprime ai massimi livelli la cultura magnogreca». E poi parla di promozione, attraverso «eventi speciali» (!), del «polo museale ionico» e di «tutti i beni culturali, compresi quelli storico-paesaggistici» (sic!). Il ruolo di protagonista, come suggerisce Bitetti, dovrebbe giocarlo il Museo Archeologico Nazionale «che, secondo le condivisibili aspettative della direttrice, intende a giusto titolo proiettarsi e farsi apprezzare in ambito internazionale».
Stando a questo ragionamento, Gucci dovrebbe passare dall’Acropoli di Atene a Taranto (non è chiaro in quale “location”) … Magari allo stesso prezzo! E sfugge il ruolo che dovrebbe avere il Museo in questa fantasiosa proposta…
Appare invece molto chiaro come Taranto costituisca il paradigma in miniatura delle tendenze nazionali. In campo di patrimonio non si riesce proprio a invertire la rotta secondo la quale valorizzazione e monetizzazione sono sinonimi; non si approda, dunque, a un’idea di valorizzazione come comunicazione della conoscenza attraverso il patrimonio. E come si potrebbe, in una città in cui le professioni culturali non vengono neanche considerate alla stregua di lavoro, in un ambito in cui vige la più completa anarchia? Si continuano a proporre i monumenti e il patrimonio come “location” piuttosto che come luoghi di conoscenza e identità.
Il rifiuto della Grecia non è un capriccio, ma una posizione costante nel tempo che ha permesso al Partenone di mantenere un fascino inattaccabile, di preservare il proprio valore universale. Ed è noto che quando una cosa ha un valore inestimabile, se la si concede per un prezzo preciso automaticamente si svaluta. E la svalutazione è graduale, via via che viene concessa sotto corrispettivo quantificabile, magari a cifre anche più basse. Che non significa che vadano, ad esempio, vietati i concerti o gli spettacoli teatrali nell’Arena di Verona: in quei casi il monumento non è uno sfondo, un qualcosa di sterile e morto, ma vive con il pubblico (vasto e variegato, anche se pagante) partecipando della contemporaneità pur nel mantenimento della propria funzione originaria. Altra cosa è privatizzare il patrimonio pubblico, magari attraverso cene private su Ponte Vecchio!
Questa differenza è sostanziale se si vuole capire il ruolo del patrimonio, come esso vada interpretato in una società in continua, rapidissima evoluzione. Una differenza che non viene compresa ai piani alti del Governo e che, via via che si scende di livello istituzionale, viene ulteriormente fraintesa, fino a divenire la caricatura di se stessa. Si è perfettamente allineati a un’idea di patrimonio come nuova frontiera dell’élite che se lo può permettere, attraverso l’affitto del quale mostrare il proprio potere, che è poi il potere del mercato, piuttosto che come momento di uguaglianza e democrazia, luoghi dinanzi ai quali le differenze di qualunque genere e, in particolar modo, quelle sociali vengono abbattute. Ed ecco che la sfilata di Gucci a Taranto si carica della retorica, fin troppo masticata, del rilancio.
Si ha, dunque, qualche difficoltà a comprendere come 900 secondi di sfilata possano compiere miracoli sulla percezione della città… Ma alla vigilia delle elezioni, si sa, l’immaginazione funziona sempre meglio della realtà.
StecaS