Il cielo carico di lacrime sfoga la sua disperazione con una bomba d’acqua. Un paesaggio suggestivo in cui il benessere e il progresso fanno a pugni con la natura: il verde selvaggio delle campagne stattesi, i muretti a secco e il profumo di erba bagnata. Uno sbuffo di vapore, le fiamme delle ciminiere, la discarica recintata e sorvegliata, i fiori di campo, maledettamente belli, perché cresciuti tra le rovine. Un fiume umano, le voci ed i volti di anime avvolte in un’ atmosfera cupa ed apocalittica. Le nuvole colme di rabbia, avanzano silenziosamente, inseguendo le anime del corteo. Una marcia, indetta dal giornale on-line “Cosmopolis”, partita da Statte e conclusasi sotto i piedi del mostro d’acciaio, in ginocchio alla ciminiera più alta, imponente ed onnipresente.
Un quadro surrealista: ombre sfumate, pennellate veloci e frenetiche: la dinamicità dei corpi e l’immobilismo delle immense strutture d’acciaio. La vita in movimento, l’indignazione urla a gran voce. La pioggia non fa paura, sono in tanti, un popolo in cammino, in cerca di riscatto e di giustizia. Le bandiere al vento, le maschere, gli striscioni e gli sguardi assorti e malinconici, il silenzio e l’odore di basilico. Si vuole la chiusura immediata dell’area a caldo.
Vincenzo Fornaro, dopo l’abbattimento di tutto il suo bestiame, coltiverà la canapa nella sua masseria: modelli di economia alternativa, un modo differente per concepire il benessere e costruire la propria felicità. Il suo sorriso illumina il grigiore del paesaggio.
La grande assente è la classe operaia. La vera protagonista, la perenne dicotomia tra salute e sussistenza. Il lavoro concede il pane, ma distribuisce morte e sofferenza. Una tenaglia stretta al collo e al cuore della povera gente, incolpevole o più volte inconsapevole.
Un palchetto e due sedie, il microfono è volante: passa dalle mani grandi e robuste di uno degli attivisti del comitato “No al carbone” di Brindisi a quelle di una dolce bambina di nove anni che pretende di non vedersi sottratta il proprio futuro, a voci inopportune e fuori luogo, intrise di un moralismo spietato. Un popolo stanco e rassegnato, oggetto di teatrini e strumentalizzazioni crude e malvagie.
La città di Taranto è divenuta meta di piagnistei e commiserazione. Sarebbe potuta essere laboratorio politico, palestra della disobbedienza e della ricostruzione. Ma la frammentarietà e la vita di branco, l’errore di concepire un problema comune come sofferenza di pochi conduce inevitabilmente ad ammalarsi di solitudine. Non partecipare a questi momenti di piazza denota un forte senso di de-responsabilizzazione, ma d’altronde non ci vuole granché per presumere che se la testa di un corteo si apre con uno striscione “Taranto senza Ilva”, le tute blu si troveranno sempre e comunque dall’altra parte delle barricate.
Taranto è proprio come un muretto a secco: forte e resistente, ruvida e frastagliata, colma di insenature, nelle quali puoi trovarci erbacce, ma anche fiori piccoli e fragili, colorati e rari, come le anime belle che alla divisione preferiscono accogliere le sfumature e le differenze.