Occorre pensare invece ai mille bisogni diversificati di una zona ad alto tenore economico come l’Europa dei Sei, in cui fra un decennio o poco più il reddito pro-capite e il tempo libero saranno assai maggiori di oggi. Molti di questi bisogni non potranno soddisfarsi con manufatti industriali, ma con prodotti di un’agricoltura industrializzata, o di un artigianato intelligente. Potranno essere anche di natura assai diversa: pensiamo al bisogno di riposo fisico e di godimento spirituale. E alla soddisfazione di tali bisogni il Sud è, dal clima, dalla conformazione dei luoghi e dalla storia particolarmente qualificato.
Così Ettore Massacesi sul prestigioso settimanale di Confindustria, Mondo Economico, nel 1959. Tale posizione, allora ben radicata presso gli industriali italiani, echeggiava la teoria della “divisione internazionale del lavoro” di ricardiana memoria: sulla base delle differenti dotazioni di risorse naturali, si riteneva vi fossero aree in cui era vantaggioso sviluppare l’industria e altre la cui “vocazione” era l’agricoltura, il turismo, l’artigianato. Contro queste tesi, che di fatto giustificavano la divisione gerarchica del mondo imposta dal colonialismo (paesi industrializzati contro economie sottosviluppate), si appuntò in Italia l’elaborazione dei meridionalisti dell’epoca. Con una struttura di tipo rurale il Sud avrebbe continuato a esibire bassi livelli di reddito, alte percentuali di disoccupazione e ampi flussi di emigrazione; non solo: l’assenza di un sistema industriale articolato avrebbe pregiudicato uno sviluppo autonomo delle province meridionali, conservando il Mezzogiorno nella condizione di area assistita. Negli anni a venire nessuna di queste posizioni prevalse nettamente: nel Sud ci fu un processo di industrializzazione, ma riguardò prevalentemente settori intermedi, funzionali allo sviluppo delle produzioni di beni di consumo del Nord. Sul piano del reddito e dell’occupazione si registrò un indubbio progresso, che portò alla contrazione del divario con l’area più avanzata del paese (almeno fino alla metà degli anni ’70); tuttavia gli squilibri fondamentali rimasero e andarono approfondendosi col venir meno delle politiche meridionaliste e con il rapido processo di privatizzazione dell’industria pubblica.
Oggi le vecchie tesi confindustriali tornano di moda. L’idea di trasformare il Sud in un enorme parco a tema per facoltosi forestieri viene lanciata dall’istrionico Oscar Farinetti e ripresa dal Ministro della cultura, Dario Franceschini. Queste fantasie non vanno giudicate per la loro realizzabilità, quanto per la funzione ideologica che esse svolgono. Il Mezzogiorno è in piena fase di desertificazione produttiva, con conseguente crollo dei livelli occupazionali; quest’area sta così tornando ad essere un ampio serbatoio di manodopera a basso costo per le regioni più avanzate d’Italia e d’Europa. Mistificare tutto questo, legando il logoro stereotipo del Sud “pizza-sole-e-mandolino” a improbabili prospettive di sviluppo, è nell’interesse dei settori cari a Farinetti e allo stesso governo di cui Franceschini fa parte. A tutti gli altri non dovrebbe restare che guardare in faccia la realtà.