Come spesso accade quando il dibattito si concentra su aspetti dal forte impatto simbolico ed emotivo, anche nel caso del referendum del 17 aprile gli argomenti propugnati dai sostenitori del Sì e del No eccedono ampiamente la portata del quesito. Cerchiamo allora di capire su cosa in concreto si voterà fra poco meno di due settimane. Per farlo, abbiamo bisogno di ricostruire brevemente i passaggi che hanno portato all’indizione dello stesso referendum.
Un po’ di storia
Il 20 aprile 2010 il mondo riscopre i rischi legati alle trivellazioni marine. Una “marea nera” si sprigiona dalla piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum, nelle acque del Golfo del Messico. Lo sversamento dura fino ad agosto, e a tutt’oggi è considerato il più grave disastro ambientale della storia americana. L’impressione sull’opinione pubblica mondiale, e sugli stessi responsabili politici, è potente. In Italia l’allora governo Berlusconi decide di varare una norma di precauzione. Il 29 giugno 2010 viene approvato un decreto legislativo (D.lgs. 128/2010) che avrebbe dovuto completare il cosiddetto “Testo Unico in materia ambientale” (D.lgs. 152/2006). Insieme a modifiche e integrazioni riguardanti prevalentemente le procedure di VIA, VAS e AIA, quel testo introduce un comma (il 17 dell’articolo 6) che vieta “le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare” all’interno di tutte le aree marine protette, nonché a distanza di dodici miglia dal perimetro delle stesse, e in ogni caso al largo di cinque miglia dall’intera costa nazionale. Viene ribadito il permesso alle attività esistenti.
E’ un primo passo, ma le fasi successive sono segnate da interventi non sempre coerenti. Un anno dopo l’approvazione della norma, un nuovo provvedimento del governo (D.lgs. 121/2011) riduce a cinque miglia il margine di rispetto in un’area sin dal 1977 considerata “baia storica” (e quindi soggetta al limite delle 12 miglia): quella del Golfo di Taranto. Con questa modifica “ad hoc”, le richieste di prospezione riguardati quell’area giunte al governo nei mesi precedenti possono essere prese in considerazione.
Nel novembre 2011 arriva a Palazzo Chigi Mario Monti. Il nuovo governo “tecnico” lavora a una serie di misure “per la crescita del paese”, che vengono raccolte nel decreto legge del 22 giugno 2012. A distanza di due anni, la norma sulle attività estrattive nelle acque di prossimità viene nuovamente rivista. Il divieto viene portato da 5 a 12 miglia per l’intera costa nazionale. Le eccezioni però sono numerose. A essere esentate non sono soltanto le attività già autorizzate (e le relative proroghe), ma anche i procedimenti di autorizzazione già avviati entro l’entrata in vigore del provvedimento del 29 giugno 2010, cioè l’11 agosto successivo. In questo ambito rientrano progetti molto discussi: non solo quelli relativi al Golfo di Taranto, ma anche il cosiddetto “Ombrina mare”, una piattaforma di grandi dimensioni da installare a pochi chilometri dalla costa di San Vito Chietino (Ch).
A questo punto è opportuno fare un passo indietro per capire il funzionamento dei procedimenti autorizzativi per le estrazioni marine. In Italia questi vengono normati per la prima volta nel 1957, con la legge 6, modificata in molte parti dieci anni più tardi (L. 613/67). Con il provvedimento del 1967 vengono fissati i limiti di durata dei diritti di prospezione, di ricerca e di coltivazione dei giacimenti marini di idrocarburi: rispettivamente un anno, sei anni (più due successive proroghe di tre anni) e 30 anni. In quest’ultimo caso, la legge riconosce al concessionario la possibilità di chiedere una proroga decennale entro vent’anni dal rilascio del permesso, dopo aver dimostrato l’adempimento delle attività di sfruttamento del sito. La legge n. 9 del 1991 ritorna sull’argomento, ampliando i termini delle proroghe. Alle attività di ricerca viene concesso il diritto a un ulteriore rinvio. Ai gestori delle attività estrattive viene riconosciuta la possibilità di chiedere una o più proroghe di durata quinquennale entro sette anni dal rilascio della prima proroga decennale. I tempi di esercizio delle estrazioni vengono così significativamente dilatati, ma restano temporalmente definiti.
Il provvedimento varato dal governo Monti nel giugno 2012 non modifica questa situazione per le attività esistenti e per i progetti presentati entro l’11 agosto 2010: per prospezioni, ricerche ed estrazioni in atto o in via di autorizzazione nelle dodici miglia dalla costa la tempistica resta quella descritta sopra. Inoltre, tutte queste attività vengono assoggettate alla procedura di VIA (Valutazione di Impatto Ambientale), e al parere delle Regioni.
Inizia intanto a prendere corpo il movimento “No Triv”. La contestazione interessa situazioni molto diverse fra loro: dalle estrazioni già operative (in particolare nella Val d’Agri, in Basilicata) ai progetti in via di definizione, in terra (per esempio, Tempa Rossa) come in mare (la stessa Ombrina e altri). L’impulso al referendum viene dato dall’approvazione del cosiddetto decreto “Sblocca Italia” (D. l. 133/2014) del governo Renzi. Questo però non interviene specificamente sulle estrazioni in mare, ma su aspetti di portata più generale. Il provvedimento mira a rafforzare i poteri del governo nelle procedure di autorizzazione delle attività estrattive, ridimensionando di contro quelli degli enti locali. Ciò provoca la reazione delle Regioni interessate dalle trivellazioni (o da progetti in quel campo). Per la prima volta nella storia della Repubblica, dieci consigli regionali (Abruzzo, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna,Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) decidono di proporre una consultazione referendaria, esercitando una facoltà riconosciuta dall’articolo 75 della Costituzione. Si realizza così la convergenza fra amministrazioni regionali e movimento No Triv, che porta alla stesura di sei quesiti referendari: cinque di questi riguardano diversi passaggi dello “Sblocca Italia”; uno chiede l’abrogazione di parte della norma relativa alle estrazioni in mare introdotta nel 2012. Segnatamente, viene messa in discussione la deroga al divieto di prospezione, ricerca e coltivazione entro le 12 miglia concessa ai progetti in via di autorizzazione, nonché la possibilità di estendere le proroghe per quelli esistenti. Il quesito prospetta così il graduale esaurimento delle attività estrattive nelle acque di prossimità in corrispondenza allo scadere delle autorizzazioni (e delle proroghe) già rilasciate.
Con la Legge di Stabilità 2016 (Legge 208/2015), approvata lo scorso dicembre, il governo modifica le parti dello Sblocca Italia interessate dalla proposta referendaria. A quel punto, la Cassazione non può che invalidare i cinque quesiti correlati – l’appello per conflitto di attribuzione, avanzato da sei regioni, viene respinto dalla Corte Costituzionale lo scorso 10 marzo. Resta in piedi così soltanto il quesito relativo alle estrazioni in mare, ma con una modifica del testo.
La stessa Legge di Stabilità infatti è intervenuta anche su quel tema, emendando la norma introdotta dal governo Monti. La nuova versione di fatto ha accolto le istanze dei promotori del referendum in merito ai nuovi progetti, che sono stati così bloccati, ma ha introdotto al contempo una proroga senza limiti temporali – bensì legata alla “durata di vita utile del giacimento” – per le estrazioni già operative. Ed è su questo punto che si concentra il quesito per cui si voterà fra qualche giorno: esso chiede che quella concessione indefinita venga abrogata, in modo che le attività estrattive esistenti entro le 12 miglia vengano dismesse allo spirare delle autorizzazioni (e delle proroghe) già rilasciate.
Alcune considerazioni
Come si è detto in premessa, in questa sede si intende restare al merito del testo: non si terrà conto pertanto delle implicazioni ambientali o economiche delle attività in questione. Quanto visto finora consente di delineare alcune considerazioni.
1) A partire dal 2010, il “legislatore” si è espresso in diverse occasioni sul tema di cui tratta il referendum, e mai ha messo in discussione il principio che ha ispirato la prima formulazione, cioè la necessità di osservare un margine di rispetto come forma di precauzione dai rischi correlati alle attività estrattive. Da ultimo, la Legge di Stabilità ha reso più stringente l’osservanza di questo divieto, escludendo possibilità di deroga per i nuovi progetti. Alla luce di ciò risalta la contraddittorietà della proroga indefinita concessa alle attività esistenti. Se è convinzione del legislatore che le acque entro le 12 miglia debbano essere tutelate dalla presenza di attività estrattive, quella norma è un controsenso; essa infatti rimanda a un momento indefinito la soppressione della fonte di rischio presunto: nel frattempo la collettività resterebbe esposta ai pericoli riconosciuti dallo stesso legislatore. Quest’ultimo, in presenza di una situazione di pericolo latente, avrebbe piuttosto il dovere di stabilire tempi certi e ragionevoli per il ripristino di condizioni di sicurezza. Queste condizioni sarebbero garantite dalla vittoria del Sì: in questo caso, ci sarebbero tempi definiti (lo scadere delle autorizzazioni e delle proroghe in essere) per la dismissione delle attività estrattive e per la piena applicazione del divieto di prospezione, ricerca e sfruttamento dei giacimenti entro le 12 miglia dalla costa.
2) D’altra parte, la situazione attuale rischia di esporre l’Italia a una procedura di infrazione comunitaria, dal momento che – come segnalato nella memoria presentata dalle Regioni alla Corte Costituzionale – essa sarebbe in contrasto con la direttiva 94/22/CE. Questa infatti prescrive che “la durata dell’autorizzazione non superi il periodo necessario per portare a buon fine le attività per le quali essa è stata concessa”. Proroghe possono essere autorizzate “se la durata stabilita non è sufficiente per completare l’attività in questione e se l’attività è stata condotta conformemente all’autorizzazione”. Il rinnovo del permesso è quindi subordinato a un progetto e al resoconto sull’attività svolta fino a quel momento (come previsto dalla stessa legge 9/1991), mentre la norma introdotta dalla Legge di Stabilità di fatto svincola le società concessionarie, garantendogli il pieno godimento del giacimento. E’ legittimo domandarsi se, in questa circostanza, non si configuri di fatto una cessione di proprietà di beni pubblici per eccellenza.
Su queste basi, si possono trarre delle conclusioni politiche. In gioco, il 17 aprile, non c’è l’approvvigionamento energetico del nostro sistema economico, né il futuro delle attività costiere, ma qualcosa di più preciso e urgente per un paese come l’Italia: l’uniformità e la cogenza della legge. Svincolare indefinitamente certe situazioni di fatto dall’applicazione di un principio equivale a legittimare stati di eccezione permanenti, che inevitabilmente mettono a rischio l’effettività del principio stesso. Equivale a sancire la supremazia di interessi particolari sulle norme che la collettività – attraverso i suoi legislatori – si è data per tutelarsi da pericoli ritenuti insostenibili. Troppe volte, nel nostro paese, è prevalsa questa impostazione – con esiti spesso disastrosi.
In campo il 17 aprile ci sono quindi due opzioni: una che punta ad affermare il principio di legge, assorbendo nel tempo l’eccezione; l’altra che mira a tutelare l’eccezione, ponendo le basi per la graduale erosione del principio. D’altra parte, spesso gli interessi costituiti alla sfida in campo aperto preferiscono gli agguati, e alle proposte organiche il proliferare dei particolarismi. Il referendum rappresenta invece l’opportunità per uno scontro alla luce del sole, e le ragioni del Sì sono quelle di chi ancora crede che compito dello Stato sia affermare la volontà generale.