Il tema dell’ambiente che monopolizza il dibattito pubblico cittadino, restringendolo sia in termini di ampiezza che di profondità. Una moltitudine di giovani e giovanissimi, caratterizzati spesso da un’ampia disponibilità alla mobilitazione, che rischiano però di essere schiacciati – e compressi – dalla monotematicità totalizzante e non (sufficientemente) politicizzata, di quell’ordine del discorso localmente dominante che nasce e muore intorno al noi vogliamo aria pulita! Cosa implica, in un contesto complicato come quello tarantino, ragionare sui criteri di una possibile autoformazione, che possa allo stesso tempo utile e partecipata? Ne proviamo a ragionare con Girolamo De Michele, proponendo una bozza di discussione che fin da ora aperta a sviluppati e prese di parola collettive.
Nell’analizzare le potenzialità e i limiti del dibattito pubblico in riva allo Ionio, una prima difficoltà è indubbiamente legata alla retorica dominante secondo la quale l’ambiente sia, in definitiva, un terreno di discussione neutro e pacificato. Risulta, infatti, tendenzialmente espulsa dal dibattito pubblico l’opzione secondo la quale la tematica ambientale sia di per sé un campo di battaglia nel quale si affrontano interessi opposti e incompatibili tra loro. Questa natura ambivalente della tematica ambientale – che può assumere la portata, a seconda di chi prevale tra le forze che compongono il campo di battaglia, di un progetto complessivo di liberazione o di un programma di nuovo sfruttamento – facciamo fatica a percepirla e raccontarla. Al di là della tematica specifica ambientale, in che maniera si può imparare a comprendere l’ambivalenza come metodo di lettura critica del mondo?
La mia generazione ha fatto poca fatica ad apprendere l’esistenza e l’uso critico dell’ambivalenza – che noi chiamavamo “contraddizione” e “antagonismo”. Erano tempi in cui si passava attraverso la critica marxiana della dialettica hegeliana, e farlo significava criticare il “pacifico” scivolamento delle contraddizioni nella sintesi (che in realtà pacifico, in Hegel, non era, lo era al più nella risciacquatura crociana – ma questa è un’altra storia). Non dico che fosse un bene dare tanta importanza ad Hegel, ma così è andata. Poi, i più raffinati – o radicali, sia nel pensiero che nella pratica – hanno scoperto quello scrigno del tesoro che sono i Grundrisse di Marx, nel quale gli antagonismi e le differenze venivano scoperti come costitutivi della realtà: di una realtà costituita dai rapporti di classe, beninteso. E quel gioiello – anche metodologico – di ermeneutica dei Grundrisse che è Marx oltre Marx di Negri. Ai quali si accompagnavano anche Sergio Bologna, Hans-Jürghen Krahl, il primissimo Tronti (e solo quello, prima che divenisse il Pat Garrett dell’operaismo). Poi abbiamo scoperto Foucault (e Deleuze): ecco, io da questo schematico programma di lettura non riesco a staccarmi, non mi sembra che sia stato prodotto nulla di fondamentale oltre questi testi (molto che ha intensivamente approfondito e dettagliato, senz’altro: ma qui si parla di “imparare a comprendere”).
Nell’immaginare possibili percorsi di autoformazione, corriamo costantemente un rischio: quello di indicare traiettorie e programmi in linea più che altro con il desiderio, le esigenze e i gusti politici degli (auto)formatori, con la particella auto che finisce per essere utile più per marcare il campo che come strumento di inchiesta sui possibili meccanismi che azzerino (o assottiglino) la distanza tra organizzatori ed utenti dell’esperienza formativa. Quali strumenti e/o possibili pratiche suggeriresti per limitare questo rischio?
In parte ho già risposto: come sempre, del resto, si parte dai “classici”, che hanno ancora qualcosa da dire a tutti – al di là, voglio dire, delle beghe, delle faide tra botteghe, delle miopie di piccolo o piccolissimo cabotaggio. Poi la verifica la fai nella prassi, dove il rischio è sempre di ipostatizzare l’inchiesta per ricercare solo quello che hai già deciso di voler trovare: sull’inchiesta, ad esempio, io più che spaccare in quattro i residui capelli di Alquati (a cui va il massimo rispetto) suggerirei oggi di studiare alcuni grandi reportage giornalistici del tardo Novecento per acquisirne il metodo, o alcuni libri che ne fanno oggetto.
Secondo la tua percezione, la parola stessa “autoformazione” è, di per sé, ancora spendibile, nell’ottica della realizzazione di percorsi di condivisione dei saperi capaci poi di essere realmente partecipati da tante e tanti giovani e giovanissimi, o dovremmo forse sperimentare l’utilizzo di altre parole (e altre pratiche) capaci di evocare un immaginario più attraversabile?
Autoformazione dovrebbe rimandare, in positivo, a un sapere critico “soggettivato” a fronte dell’annacquamento delle università e delle accademie, nelle quali c’è sempre meno da imparare: insomma, mi faccio da me quello che mi sarebbe dovuto, ma che le istituzioni del sapere no sono più capaci di darmi: e lo faccio all’interno di una militanza che mi consente di essere già im-mediatamente dentro le cose stesse (il che , sembra strano dirlo, una volta poteva anche accadere dentro l’Università, e in qualche raro caso ancora accade). Se così è, manteniamo pure la parola. Se invece autoformazione significa una forma di auto-ghettizzazione, nella quale le questioni pratiche vengono risolte con le capriole linguistiche, secondo quel metodo (da Heidegger a Scalzone, se mi passate l’ironia) che vuole che quando si arrivi al nodo duro delle cose il linguaggio si ingarbugli fino a diventare incomprensibile, allora no: ma in questo caso è sbagliato non il nome, ma la cosa.
Il marxiano sogno di una cosa ridotto al già citato noi vogliamo aria pulita! Se dovessi suggerire alcune parole e/o concetti chiave, dai quali ripartire, in questa fase politica e in questa città, nella prospettiva nell’apertura di cantieri per autoformazione allo stesso tempo efficace e moltitudinari, che si ponga innanzi tutto l’obbiettivo di allargare la sfera del possibile ben oltre l’opprimente orizzonte che si ferma al tetto, a cosa penseresti?
Mi verrebbe da dire: tutte le parole/concetti dell’Abbecedario di Deleuze, e tutti quelli che verrebbero fuori dall’autoproduzione di un Abbecedario Foucault.
Per concludere, avendo nient’altro che l’obiettivo del gioco, e parafrasando il frame virtuale che ha interessato i social network in tema di liste di libri, se dovessi suggerire dieci testi dai quali (ri)partire, che non dovrebbero mancare nella biblioteca della giovane e del giovane attivista (o nella biblioteca di uno spazio per la condivisione dei saperi come Off Topic, che abbiano come obiettivo quello di introdurre alla comprensione di quella che chiamiamo razionalità neoliberale, cosa ti viene in mente?
Occazzo… vi venisse un secchio d’acqua delle cozze in testa! Vabbe’:
-Marx, Grundrisse
-Negri, Marx oltre Marx
-Sergio Bologna, Banche e crisi. Dal petrolio al container
-Christian Marazzi, Capitale e linguaggio
-Mezzadra e Fumagalli (a cura di), Crisi dell’economia globale
-AAVV, Gli autonomi, 3 voll.
-Michel Foucault, Dits et écrits
-Gilles Deleuze, Felix Guattari, Capitalismo e schizofrenia (I. L’anti- Edipo; II. Millepiani)
-Spinoza, L’Etica
-David Foster Wallace, Infinite Jest