La discussione sulla sicurezza e la salute delle lavoratrici e lavoratori non può essere relegata nelle giornata in memoria delle vittime, oppure in poche righe nelle cronache locali che trattano il “fenomeno” degli infortuni o delle malattie professionali. Quello del dramma delle morti sul lavoro è un triste bollettino di guerra, che non conosce soste. Vengono chiamate da molti “morti bianche” o, peggio ancora, “tragiche fatalità” – come se la morte di un lavoratore sia dovuta al bieco destino e non al fatto che in molti luoghi di lavoro non si rispettano neanche le minime norme di sicurezza e salute.
Nel 2012 si sono contati quasi 900 morti sul lavoro e sono stati denunciati 750.000 infortuni, che hanno dato luogo a 40.000 invalidità permanenti. Mentre sul fronte delle malattie professionali, ancor più drammatico e sconosciuto, sono deceduti 396 lavoratori nel solo 2012, ai quali ne vanno aggiunti altri 1.187 negli anni precedenti, mentre complessivamente sono stati riconosciuti oltre 17.000 casi di malattie professionali (anche se va detto che negli anni l’I.N.A.I.L. ha registrato un trend moderatamente decrescente, che però va tarato con la grave crisi occupazionale che stiamo vivendo). Dall’inizio dell’anno, invece, sono documentati 529 lavoratori morti per infortuni sui luoghi di lavoro (dati dell’Osservatorio Indipendente di Bologna). Ad essi si aggiungono i lavoratori in nero che “spariscono” dalle statistiche, quelli che si ammalano a causa delle scarsa sicurezza nelle fabbriche e, fenomeno sempre più in crescita, i disoccupati che si uccidono per la disperazione di non avere un impiego.
Dal punto di vista normativo, si registra il passo indietro dell’Europa. Sotto il peso della crisi e dei risorgenti egoismi nazionali, per quanto riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, la UE non pensa più in termini di strategia: almeno per il settennio 2013-2020 l’azione europea si limiterà a qualche raccomandazione, peraltro non impegnativa. Infatti, dopo trentacinque anni di politiche attive in materia, la Commissione Europea ha deciso di sacrificare questo tema alle pressioni del padronato, che vede nelle condizioni di lavoro una variabile per aumentare la competitività. È dal 1977 che esiste una pianificazione delle politiche europee sulla salute e sicurezza sul lavoro. L’ultima strategia è scaduta alla fine del dicembre 2012. Il miglioramento del quadro legislativo comunitario sarebbe, invece, un fattore essenziale per un’armonizzazione delle situazioni nazionali, caratterizzate da differenze che sono cresciute con l’allargamento dell’Unione Europea.
Se, da un lato, l’Europa fa un passo indietro, dall’altro c’è la scelta del governo italiano di riproporre quanto aveva già cercato di fare il governo Monti. E cioè contrabbandare, attraverso l’idea della semplificazione e la concretezza del “fare”, una smobilitazione sul fronte della sicurezza e della salute sul lavoro. Il 21 giugno è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge n.69, il cosiddetto “Decreto del Fare”, che reca alcune misure immediatamente esecutive sulle tematiche di salute e sicurezza decisamente negative per la conservazione dei livelli di tutela prevenzionale, in particolare nei settori e nei contesti lavorativi a più alta esposizione ai rischi, già caratterizzati da un numero rilevante di infortuni gravi, mortali e di malattie professionali. Continuando a confondere gli interventi di semplificazione burocratica con l’alleggerimento delle tutele in materia di prevenzione, il governo ha dimostrato di non conoscere adeguatamente la materia della salute e della sicurezza sul lavoro e di perseguire logiche che non si pongono come priorità la riduzione degli eventi infortunistici e tecnopatici. La legge 98/13, che ha convertito il cd. “Decreto del Fare”, risulta farraginosa, contraddittoria e di difficile applicazione; in essa rimangono tutt’ora presenti previsioni che fanno fare un passo indietro de facto alla nostra legislazione di tutela prevenzionistica. Il governo delle larghe intese sembra essersi mosso con una certa imperizia, cercando di tenere insieme gli interessi delle imprese a modificare le parti più innovative e “fastidiose” del Dlgs 81/08 (Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro), facendo piccole concessioni del tutto marginali ai lavoratori e alle loro organizzazioni, e cercando di evitare ulteriori sanzioni o procedimenti in sede europea.
Purtroppo assistiamo inermi ad una nuova legge che porta avanti una cultura del non rispetto dei diritti dei lavoratori; una legge che, invece di incrementare e migliorare la normativa in materia di prevenzione, trascura del tutto la sicurezza e la salute delle lavoratrici e lavoratori. Fino a quando si considererà la sicurezza come un costo per le imprese, e non come uno degli elementi fondamentali per renderle avanzate e competitive, il rischio per l’Italia sarà quello di rappresentare l’area europea col lavoro a basso costo e a massimo rischio. Sarebbe anche opportuno un’ulteriore riflessione sui nuovi rischi legati alle forme di lavoro precarie e alla crescente insicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici dovuta alla persistente crisi economica. La sicurezza si raggiunge solo attraverso la “cura” delle lavoratrici e lavoratori, la loro formazione e l’uso di una tecnologia ed impianti adeguati. Senza queste condizioni non c’è tutela dell’integrità fisica, e quindi neanche diritto “al lavoro”.