L’articolo di Michele Dentico uscito sabato su Siderlandia pone delle questioni importanti, su cui è urgente interrogarsi in una città come Taranto. Qui infatti le politiche di austerità stanno producendo devastazioni sociali di amplissima portata e i rischi di derive neo-fasciste sono tutt’altro che improbabili, come insegna la nostra storia recente e come appare chiaro da una lettura attenta delle dinamiche in atto. Di fronte a tutto questo occorre agire nel più breve tempo possibile. E allora torna la classica questione: “che fare?”
Michele giustamente rileva che “senza speranza ogni lotta è persa, e senza un obiettivo ogni organizzazione è impossibile.” A Taranto la speranza vive in una contraddizione stridente: da una parte, è negata dalle condizioni oggettive in cui si trovano migliaia di donne e di uomini, soprattutto giovani, ai quali è preclusa un’aspettativa positiva per il futuro; dall’altra, essa è alimentata dall’attività di gruppi spontanei, impegnati in un capillare lavoro di cura nei confronti della collettività. La crisi che stiamo attraversando sembra infatti aver prodotto un esito apparentemente paradossale: se manca l’occupazione, se i lavori che il mercato offre si basano su condizioni semi-schiavistiche, un numero sempre maggiore di persone ritiene più utile impegnare tempo ed energie in impieghi da cui può trarre quanto meno una ritorno di carattere morale – la soddisfazione di essersi resi utili agli altri e di ricevere dalla comunità un riconoscimento. A Taranto questo fenomeno sta assumendo connotati rilevanti: si pensi ad alcuni casi di cui la stessa Siderlandia si è occupata (Officine Tarantine, Archeoclub ecc.) o al lavoro che questo collettivo svolge.
Tale tendenza mostra una potenzialità, ma allo stesso tempo è caratterizzata da un limite evidente. La prima consiste nella riscoperta di valori sociali che in trent’anni di neo-liberismo si è provato a distruggere – operazione portata alle estreme conseguenze dalle politiche di austerità, che stanno aprendo in tutta Europa fronti allarmanti di guerra fra poveri –; il secondo è dato dall’insostenibilità nel lungo periodo di quelle iniziative: presto o tardi i loro promotori (fra cui i componenti di questo collettivo) dovranno affrontare la questione fondamentale del “portare il pane a casa”.
Da questa contraddizione può nascere però l’“obbiettivo” al quale accenna Michele nel suo articolo. Se i gruppi che operano spontaneamente nel nostro territorio producono servizi utili all’intera comunità, è appena giusto che le istituzioni garantiscano loro gli strumenti economici e logistici per protrarre nel tempo quello che di fatto è un lavoro. E’ giusto che la creatività e la passione che molti giovani tarantini stanno dimostrando con opere e azioni nelle avverse condizioni attuali vengano riconosciute attraverso un reddito adeguato, perché quel potenziale non inaridisca – e anzi si sviluppi, rivitalizzando l’intera città. Una grande battaglia per permettere ai giovani di Taranto di esprimere le proprie capacità e arricchire così la collettività, liberandosi al contempo dall’incubo della disoccupazione e della miseria, può essere il terreno concreto sul quale costruire un movimento reale di trasformazione. Si tratterebbe di battersi contro quell’immobilismo che caratterizza le classi dirigenti locali – un modo di fare che sta portando Taranto e i suoi abitanti alla rovina -, per trasformare le istituzioni da esecutori materiali delle politiche di austerità in nuclei nevralgici del cambiamento.
E se cominciassimo da qui, subito, mettendo da parte differenze e separazioni spesso fittizie? Ripartendo dalle nostre condizioni di vita; provando a superare quell’isolamento in cui ciascuno di noi quotidianamente affronta le proprie difficoltà – l’angoscia per il lavoro in scadenza, lo scoramento per la mancanza di opportunità, la paura per quello che sarà il futuro ecc. -; trasformando il malessere in rabbia, e questa in progetto. Il momento per iniziare a costruire la speranza è adesso: mettiamoci al lavoro.