L’attesa potrebbe durare altri cinque minuti, o innumerevoli ore. Il meccanismo è semplice quanto incerto: si parte quando si è pieni, e per ora non lo siamo. In otto attendono pazienti, tutti con la carnagione nera, quasi tutti uomini. Mi unisco a loro. Dopo aver contrattato il prezzo con l’autista, incrocio lo sguardo di un ragazzo con il colore della pelle di sfumature ancora più scure delle altre, all’incirca ventenne, che mi osserva attentamente: mi siedo accanto a lui. Il nostro minibus – un vecchio furgone della Nissan da una quindicina di posti – è uno dei mille che affollano la stazione di Johannesburg, tutti circondati da venditori di ogni tipologia. L’attesa dura meno del previsto, e la raccolta del denaro dei biglietti – affidata come sempre al passeggero più vicino all’autista – segna il momento dell’inizio del viaggio.
Dopo essere finalmente usciti dalla zona residenziale di Johannesburg, e aver superato una serie infinita di ville extralusso – con contorno di filo spinato e guardie armate – ci dirigiamo verso est. Mi ritrovo a pensare che l’esperienza di un lungo spostamento con un mezzo del genere – vecchio, lento, sovraffollato – possa aiutare a riconciliarsi con l’idea di viaggio, inteso come una diversa esperienza non solo dello spazio, ma anche del tempo. Le ampie pianure, coltivate a canna da zucchero, dell’immensa zona centrale del Sud Africa scorrono lente, intensamente colorate dalle ore più calde della giornata.
Nel frattempo scopro che il mio compagno di sedile si chiama Mfundo, ed è nato e cresciuto a Malelane. La conversazione è piacevole, e Mfundo con il passare dei chilometri inizia, dopo aver superato una solo apparente timidezza, a sommergermi di domande sull’Europa, sui nostri stili di vita, sulla geografia e sulla storia del nostro paese. In particolare è stupito dal sapere- tanto da dovermi far ripetere più di una volta la risposta – quante lingue ufficiali ci siano in Italia. A lui, che dice con occhi modesti di saper parlare cinque delle undici lingue del Sud Africa – compreso un inglese infinitamente migliore del mio – sembra inconcepibile che a qualche decina di migliaia di chilometri ci possa essere un paese nel quale una sola lingua possa rappresentare la totalità di una popolazione.
Immancabilmente, Mfundo mi chiede – dopo aver ipotizzato Florence, Rome, Turin – da quale città d’Italia io provenga. Ed è lì che non ce l’ho fatta: ho abdicato, senza bisogno di rifletterci su, a formulare la risposta automatica che in situazioni analoghe, a diverse latitudini, ho utilizzato con il mio interlocutore di turno. Qualcosa del tipo: «I come from Taranto, a town in southern Italy, known to be the most polluted city in Europe, despite this a beautiful city».
Questa volta no: oltre al toponimo della città, e alla sua collocazione a meridione, non sono riuscito ad aggiungere nient’altro che un sorriso incerto.
Probabilmente sarebbe stato giusto condividere anche con Mfundo una breve descrizione dei luoghi nel quale vivo, ma proprio non ce l’ho fatta. Mi sembrava decisamente fuori luogo essere io il primo ad introdurre nella nostra conversazione elementi di sofferenza, disagio, morte, pur essendo questi assolutamente corrispondenti al vero.
Non lui, che è nato e vive in un continente affogato da cent’anni di colonialismo. Non lui, che è circondato da una percentuale di fame, malattia e morte che difficilmente riusciamo ad immaginare. Non lui, che essendo nato in Sud Africa – e non in Zimbabwe, Burundi o Niger – si potrebbe addirittura considerare fortunato, ed invece anche lui è circondato da discriminazioni etniche e diseguaglianze economiche di elevatissima gravità.
Non lui che, nonostante questo, mi descrive sorridente i suoi progetti di vita, identificandoli con assoluta precisione nel tempo, narrandomi di quando – tra cinque anni – viaggerà in Europa, e di quando – tra sette – si sposerà.
Sarei dovuto essere io, tra noi due, il primo ad accennare al tema della sofferenza umana, dell’inadeguatezza della politica a risolvere i problemi, della precarietà dell’esistenza. Non ho avuto il coraggio, o forse il pudore, per farlo, e nelle ore successive me ne compiaccio.
Il minibus continua a scivolare, sempre con lentezza, in un paesaggio che, entrando nella provincia del Mpumalanga, inizia ad ondularsi, senza però mai diventare aspro.
La conversazione con Mfundo diventa più rada, e si interrompe del tutto nel suo addormentarsi, con estrema dolcezza, con la fronte appoggiata sul sedile anteriore.
Osservo le migliaia di donne e di uomini che affollano gli spazi ai lati della strada che percorriamo, intenti a chiedere un passaggio, a trasportare animali o cose, a camminare nel nulla di chilometri e chilometri di campi, o semplicemente ad attendere seduti o in piedi, comunque in silenzio.
Osservo con attenzione i volti, i corpi contorti dallo sforzo, o gli sguardi dubbiosi di chi aspetta. Dovrei trovare un modo per portarmeli con me, questi volti e questi occhi, e ritirarli fuori ogni volta che penso ai problemi di Taranto.
Non per ritrovarmi a pensare che, in fondo, le problematiche che ci portiamo dietro siano di poca importanza. Non per assolvere qualcosa o qualcuno, o per produrmi un’effimera, drammatica consolazione pensando a chi può stare peggio. Ma per per provare a praticare con consapevole equilibrio i temi del disagio, del dolore, dell’ingiustizia. Per provare a trovare un antidoto nei confronti di una certa retorica – estremamente diffusissima in riva allo Ionio – che tende a presentare Taranto come il fulcro, positivo o negativo a seconda del caso, di tutto ciò che succede nell’universo, con i suoi problemi descritti, in termini di eccezionalità e gravità, come quanto di peggio si possa incrociare su questo pianeta.
In fin dei conti, mentre la mia destinazione finalmente si avvicina, col sole ormai quasi tramontato, e Mfundo che mi ha già salutato in una forte stretta di mano accompagnata da un sorriso a denti spiegati, penso che in qualche modo i problemi che Mfundo e io ci portiamo dietro abbiano la stessa natura. E che, però, questi problemi abbiano specificità diverse – molto diverse – e che ricordarci dei mille volti della sofferenza umana ci potrebbe e dovrebbe aiutare a trovare un antidoto, allo stesso tempo, contro il vittimismo e lo sconfittismo: due passioni tristi che Mfundo proprio non ha.