La morte di Alessandro Morricella ha riaperto il dibattito sul futuro dell’Ilva e di Taranto. Pubblichiamo una riflessione di Fabio Boccuni, operaio Ilva.
Il tragico incidente e la morte, dopo quattro giorni di agonia, di Alessandro Morricella, il 35enne dipendente Ilva investito da un getto di ghisa incandescente l’otto giugno scorso, pone nuovamente, e con forza, interrogativi sul futuro dello stabilimento e dell’intera città di Taranto.
Inutile barcamenarsi sulle cause o sulle colpe. Sarà la magistratura a fare piena luce sull’accaduto, ma una cosa deve essere chiara: le anomalie e le responsabilità che hanno portato al tragico incidente sono tutte conseguenze di un sistema al collasso, che fatica a trovare una via d’uscita. La magistratura potrà trovare risposte al singolo episodio, ma non potrà rispondere alle domande che la comunità si pone. Esse sono domande strutturali e di sistema, che riguardano due diritti sacrosanti: la salute e il lavoro. Toccherà alla Politica, nel senso più ampio e nobile del termine, rispondere a queste domande: dalla prima e più alta istituzione fino all’ultimo e più disinteressato dei cittadini.
Le scelte, e con esse le conseguenze positive o nefaste, saranno dettate dalla capacità delle forze in campo di creare consenso attorno ad una prospettiva.
Nel frattempo, il dibattito sull’accaduto sembra mite. Fioccano i comunicati – alcuni dei quali quasi di circostanza – da parte di tutti: partiti, sindacati, associazioni, comitati e movimenti civici. Tutti con innumerevoli sfumature, tutti legittimi; alcuni con qualche velo di ipocrisia e strumentalizzazione. Prepotentemente torna alla ribalta il concetto – quasi dimenticato – per cui l’operaio è la prima vittima. Vittima per due volte: da operaio prima, e da cittadino poi. Concetto che ultimamente sembrava quasi essere stato sostituito da uno più viscido, secondo il quale l’operaio sceglierebbe da sé di lavorare in fabbrica, vendendosi per un miserevole stipendio e lasciando chi sta fuori a pagare le conseguenze di quella scelta senza ricavarne beneficio alcuno.
Questa volta non c’è un blocco della città contro cui puntare il dito. Questa volta c’è un silenzioso lutto. Ed ecco così che Morricella riscatta parzialmente gli operai. Trasformando sé e i suoi colleghi da privilegiati, venduti e responsabili, a vittime sia pur inconsapevoli. Ora, e per ora, non più nemici da combattere, ma soggetti terzi che, loro malgrado, fanno gli interessi del nemico. Uomini che vanno liberati e basta, togliendo loro il lavoro e il salario, togliendo loro la fabbrica, affinché non si facciano più male e non ne facciano più agli altri. Senza chiedergli nessun parere, senza domandargli niente… tanto loro non capirebbero.
Insomma, Alessandro, l’uomo, passa in secondo piano. Nessuno si chiede cosa pensasse: se immaginasse e sperasse in una fabbrica sana o, viceversa, in un nuovo lavoro. Nessuno si chiede insomma per cosa sia morto.
Si passa quindi dal “combatterò contro di te” al “combatterò per te”, ma sembra ancora lontano il “combatterò con te”, che servirebbe a tutti.
Perché il piano su cui si poggia il dibattito, nonostante il passare degli anni, rimane drammaticamente quello del conflitto fra diritti: quello al lavoro e quello alla salute. Quello dei padroni, ossia dei Riva che scelsero il lavoro, contro quello rivendicato da una parte della cittadinanza con spiccate sensibilità ambientaliste – o presunte tali -, che vorrebbe scegliere la salute. È un tranello! Il conflitto fra diritti è sempre stato un tranello, così come la guerra tra poveri.
I due diritti, entrambi garantiti dalla Costituzione, devono essere inscindibili. Non possiamo più permetterci di dividerli; non possiamo permetterci di correre il rischio di riabilitare agli occhi della Storia chi, a suo tempo, in mala fede e per i suoi sporchi interessi, scelse il lavoro. Non si può e non si deve commettere l’errore uguale e contrario.
Non si può continuare a immaginare una città, la nostra città, come una splendida puttana che, non avendo avuto possibilità di fare altro, si affida esclusivamente alla pochezza frivola della sua pur straordinaria bellezza, alla mercé di vecchi bavosi pronti ad usarla e gettarla. Bellissima fuori, ma tristissima dentro. Non si può immaginare il futuro di questa città, non si può guardare la sua bellezza, mentre tutto le sta crollando intorno. In ogni caso, non è solo con la bellezza fine a se stessa che si otterrà il riscatto. Non ci sono scorciatoie; non si possono chiudere le fabbriche solo perché è troppo impegnativo fare altro.
C’è un atteggiamento che tuttavia accomuna gran parte dei cittadini, nonché tutte le forze organizzate, dalle più radicali alle più moderate, da quelle che invocano la chiusura dell’Ilva a quelle che ne chiedono l’ambientalizzazione: l’attesa, il senso d’impotenza. Nessuno rinuncia al proprio piano teorico, ma nessuno si muove per attuarlo.
A tutti sembra mancare la fase a breve termine; a tutti sembra mancare il domani. Così tutti restano in attesa di un evento che possa dare il via al cambio di rotta tanto agognato. Siamo fermi, sospesi, isolati e circondati, ognuno nel proprio recinto, dal quale in qualche modo tutti dovrebbero provare a uscire.
Nel frattempo, registriamo un altra perdita: è morto uno dei nostri, una morte sul lavoro come ne avvengono ancora troppe in Italia.
L’Ilva è diventata un tema epocale, come molti altri. Complesso, divisivo, di difficile risoluzione. Il paradigma di una durissima prova che si pone non solo alla comunità tarantina, ma a tutta l’Italia, e in generale all’intera umanità. Riuscire ad avanzare nel progresso e nella civiltà o regrediremo nella barbarie?
Per affrontare questa sfida nel giusto modo, senza rischiare di perdersi come in un labirinto, occorre avere una bussola, occorre avere ancora la capacità di porsi grandi domande su grandi temi, che vadano ben oltre il recinto provincialista che ancora opprime la nostra città. Bisogna chiedersi, per esempio, uscendo fuori dalla logica strettamente campanilistica, se sia giusto scegliere tra salute e lavoro.
Dalla risposta che daremo a questa e ad altre domande dipenderà l’esito della sfida che abbiamo di fronte.
Fabio Boccuni