Il ministro dei Beni Culturali del “Governo del Cambiamento”, Alberto Bonisoli, annuncia l’abolizione dopo l’estate della “Domenica al Museo”, l’ingresso gratuito previsto nella prima domenica del mese in tutti i musei statali in seno alla riforma del sistema tariffario voluta, nel 2014, dall’allora ministro Dario Franceschini. Considerata dall’attuale ministro uno strumento che poteva andar bene “come lancio pubblicitario” ma non reiterabile – salvo riposizionarsi a seguito delle polemiche – e rivendicata dall’ex ministro come mezzo per consentire a tutti l’accesso libero alla cultura, l’iniziativa ha sempre posto non poche problematiche in merito alla sua effettiva utilità.
Quando Dario Franceschini decise di riformare anche i tariffari, mise mano in particolare alle condizioni di gratuità, abolendo il regime agevolato per gli over65 al fine di recuperare gli incassi derivanti dai tanti visitatori stranieri di quell’età. La “Domenica al Museo”, a quel punto, si poneva come contraltare di quella decurtazione dettata – come la gran parte della politica sui Beni Culturali attuata dal ministro del PD – più dalle ragioni dei numeri che da quelle della cultura.
Numeri legati agli incassi ma anche agli ingressi, ai biglietti staccati. Un ottimo strumento per la propaganda: infatti, ogni primo lunedì del mese, si è assistito all’immancabile celebrazione circa gli straordinari numeri di visitatori nei musei italiani registrati il giorno prima.
Numeri, però, ai quali non è detto che corrisponda il raggiungimento dell’obiettivo culturale che un’istituzione come il museo si dovrebbe porre. Col passare del tempo sono venuti fuori i limiti della gestione dell’iniziativa, in particolar modo – visto che piace parlare di numeri – nel confronto tra grosse iniezioni di visitatori e la carenza atavica del personale del MiBAC che solo con grandi difficoltà ha potuto incanalare i flussi. Le immagini della Reggia di Caserta invasa e le proteste dei sindacati – ma non solo – sui danni che grandi flussi di gente possono causare ai monumenti sono solo alcune delle criticità poste da questo modello di gestione del patrimonio pubblico. Ma un’altra questione cruciale è legata alla funzione del museo in un contesto del genere: quanto del messaggio culturale che passa attraverso la storia viene realmente percepito tra una sgomitata e l’altra attorno alle vetrine e agli allestimenti, dinanzi ai dipinti o alle sculture? Quanto di culturale c’è in un rituale che si atteggia a egualitario e, in realtà, opera una profonda discriminazione tra chi può permettersi realmente la cultura – chi può pagare e visita il museo con comodo, magari guidato – e chi deve accontentarsi dello sbirciare qua e là nel giorno di gratuità?
Non sono questioni da poco in un Paese che si ammanta del proprio passato per coprire una cancrena che impedisce di guardare al futuro con lungimiranza. E, a completare il quadro, il rincaro dei biglietti di accesso ad alcuni dei musei autonomi che, in un contesto sociale come quello in cui si sta trasformando l’Italia – con lavoratori salariati in diminuzione e famiglie monoreddito in aumento – rende l’accesso proibitivo per larga fascia della popolazione.
Va detto con forza che nulla nelle riforme messe in atto dal PD durante la sua gestione del Ministero dei Beni Culturali e del Turismo ha funzionato nella direzione di una capillare diffusione della cultura attraverso la conoscenza (parte del concetto di tutela) e la buona divulgazione del patrimonio (ovvero la valorizzazione): non la Riforma delle Soprintendenze, non i Musei autonomi, non la “Domenica al Museo”.
Il ministro del “Governo del Cambiamento”, nell’affermare prima di volere l’abolizione dell’iniziativa e, poi, l’implementazione dell’accesso gratuito con modalità diverse a seconda delle decisioni dei direttori, non fornisce in realtà un piano B, ovvero non contempla un reintegro nelle condizioni di gratuità delle fasce che ne sono state escluse né amplia in alcun modo il bacino dell’accessibilità agevolata. Anzi, ci dice con chiarezza in prima istanza che “se uno pensa di pagare una cosa e improvvisamente diventa gratis sembra un po’ una fregatura”: quindi, la cultura si paga, dopo essere stata pubblicizzata come una merce in saldo grazie alle “Domeniche al Museo”. Non è più un diritto, ma un lusso al quale, tuttavia, ogni tanto può accedere in massa – come in un grande evento – anche chi non ha normalmente i mezzi per farlo.
E, nonostante Dario Franceschini accusi il Ministro Bonisoli di voler attuare questa operazione per rimarcare la discontinuità con il suo operato, non si può non considerare che è stato proprio lui, con le sue riforme, a aprire un’autostrada alla concezione dei luoghi della cultura come location per eventi di lusso, alla visita al museo come status symbol, al patrimonio come petrolio. A falsare, dunque, il concetto stesso di cultura. Pertanto, il Ministro Bonisoli è in netta continuità con l’operato del suo predecessore, perseverando nella concezione fuorviante che un giorno di gratuità una tantum possa essere considerato come libero accesso del pubblico alla cultura: in realtà, proprio perché non è credibile che si esca arricchiti da un contesto come quello delle “Domeniche al Museo”, quella che viene alimentata è solo l’illusione di avere accesso alla cultura.
Se il ministro Bonisoli avesse davvero voluto porsi in discontinuità con il suo predecessore avrebbe gettato le condizioni per un reale ampliamento dell’accesso alla cultura da parte dei cittadini, perseguendo come obiettivo la gratuità per tutti nei musei statali o, almeno, l’imposizione di un prezzo politico e la revisione delle condizioni agevolate (a partire dal reinserimento nella gratuità degli over65 che dopo aver servito lo Stato con il proprio lavoro e mantenuto il patrimonio con le proprie tasse, avrebbero anche diritto a goderselo quando vogliono e liberamente).
Lasciare anche questa iniziativa alla discrezionalità dei singoli dirigenti dei musei senza porre in essere alcun rimedio per evitare che ancora intere categorie di persone vengano escluse dalla fruizione dei beni culturali pubblici è dimostrare una sola cosa: la totale mancanza di una visione della cultura e della sua reale funzione. D’altra parte, la confusione generatasi attorno all’argomento nel giro di pochissime ore – e a seguito delle polemiche suscitate da una sortita giudicata evidentemente impopolare – con rapido passaggio dalla “abolizione” alla implementazione da decidersi volta per volta è indice della abdicazione del Ministero a dettare una linea politica comune alla quale chi gestisce il patrimonio debba attenersi, rendendo di contro ancora più palese la trasformazione dei musei in aziende.
Un ulteriore fraintendimento dell’art. 9 della Costituzione, in continuità con i governi che lo hanno preceduto.
StecaS