Pochi mesi fa, al momento del suo insediamento, un autorevole esponente del governo in carica aveva dichiarato che “la Cultura è il petrolio dell’Italia”. Di recente un ex Presidente del consiglio e l’attuale Ministro dello Sviluppo economico sembrano aver messo da parte la metafora, portando al centro del dibattito il petrolio d’Italia tout court. Grazie alle nuove tecniche estrattive, e a fronte del crescente fabbisogno globale di idrocarburi, fondali e parti di territorio prima considerate poco appetibili, sono oggi interessati da numerosi progetti di trivellazione. E’ una tendenza che in realtà riguarda tutta Europa, e che presenta non poche incognite sul piano ambientale, economico e giuridico. Ne abbiamo parlato con uno dei fondatori del coordinamento nazionale “No Triv”, il movimento che raccoglie i comitati locali di tutta Italia che si battono contro la pratica delle trivellazioni. Si tratta del prof. Enzo Di Salvatore, docente di Diritto costituzionale presso l’Università di Teramo.
Partiamo dalle ragioni della protesta “No Triv”. Quali sono i rischi che l’ambiente e le comunità locali corrono a causa delle trivellazioni?
Una delle accuse mosse nei confronti del Coordinamento Nazionale No Triv è di fare bieca ideologia ambientalista. L’impegno del Coordinamento è sì ambientalista, ma non ha nulla di ideologico. Essere ambientalisti non vuol dire desiderare che ogni alberello sulla terra sia recintato, ma essere convinti che l’ambiente sia parte di un modello di sviluppo economico alternativo a quello imperante. Nel caso delle trivellazioni, è evidente che ci si trova spesso di fronte a interessi difficilmente conciliabili. Faccio un solo esempio: lo scorso autunno il Ministero dello sviluppo economico ha rilasciato un permesso di ricerca di idrocarburi denominato “Colle dei Nidi”. Detto permesso interessa un’area del territorio della provincia di Teramo nota per la produzione del Montepulciano d’Abruzzo (DOCG). Il permesso è stato impugnato dinanzi al TAR Lazio, che si pronuncerà il 28 novembre prossimo. In questo caso è evidente quali sono gli interessi in gioco: da un lato, quello degli agricoltori; dall’altro, quello della Multinazionale che intende cercare idrocarburi e poi procedere alla loro estrazione. Il permesso di ricerca consente alla Multinazionale di chiedere l’occupazione d’urgenza dei fondi. E nel momento in cui verrà rilasciata la concessione, essa potrà chiedere l’espropriazione per pubblica utilità.
La scorsa settimana a Potenza erano presenti comitati No Triv da tutta Italia, accorsi in occasione dell’incontro del ministro dello Sviluppo economico Guidi con le autorità locali. Dalle parole del ministro si apprende che l’Italia nei prossimi anni dovrà fare uno sforzo per “differenziare le fonti energetiche”, incrementando la produzione interna, per far fronte ai rischi correlati all’attuale scenario internazionale (crisi Ucraina e conseguente deterioramento dei rapporti con la Russia, in primo luogo). Rispetto a questa prospettiva ci sono alternative alla paventata estensione delle trivellazioni?
Mi preme chiarire un punto. Tutto ciò che si trova nel sottosuolo appartiene al proprietario del suolo. Il permesso per cercare idrocarburi si configura come una limitazione del diritto di proprietà del privato. Le sostanze minerarie che vengono rinvenute nel sottosuolo sono acquisite al patrimonio indisponibile dello Stato. Con la concessione si accorda un diritto: tutto ciò che viene estratto è di proprietà di chi estrae. Ragion per cui la società petrolifera può farne ciò che vuole ed è tenuta a corrispondere allo Stato il valore di una quota percentuale del petrolio o del gas estratto, che per le estrazioni in terraferma è pari al 10% mentre per le estrazioni offshore è pari al 10% per il gas e al 7% per il petrolio. La quota versata allo Stato è a sua volta in parte versata alla Regione e ai Comuni, che siano interessati dalle estrazioni. Come questo sia in condizione di porre rimedio alla attuale crisi energetica e soprattutto alla crisi economica che l’Italia sta affrontando mi sfugge. Sa cosa ci fanno in Basilicata con le royalties che lo Stato versa alla Regione? Mantengono in piedi l’Università, dopo che il governo Renzi ha tagliato per diversi milioni di euro il Fondo di funzionamento ordinario alle Università. In pratica, lo Stato taglia la spesa pubblica e il sociale dipenderà in futuro sempre più dalla “generosità” del privato.
Come tutte le attività fortemente impattanti, anche le trivellazioni pongono una questione democratica. In che modo si possono contemperare le prerogative del governo centrale (e l’“interesse nazionale”) e il rispetto della volontà delle popolazioni interessate?
La partecipazione degli Enti locali ai procedimenti che mettono capo al rilascio di un titolo minerario non è praticamente più prevista. Fino al 2009, i Comuni potevano esprimersi su tutti i procedimenti. Dal 2009, invece, ad essi viene data solo comunicazione del rilascio del titolo. Per il resto, essi possono partecipare alla VIA (come, del resto, chiunque vi abbia interesse) ed esprimersi nel procedimento di autorizzazione del pozzo esplorativo. La Regione, invece, partecipa attraverso lo strumento dell’intesa. Il problema è che nel prossimo futuro le cose potrebbero andare peggio. Il disegno di legge di revisione della Costituzione presentato dal Governo Renzi vorrebbe affidare al Parlamento la competenza ad intervenire con legge in materia di ordinamento locale tout court. La qual cosa finirebbe per ridurre di molto l’autonomia costituzionale degli Enti locali, fino al punto da vanificarne la stessa essenza. Attualmente la competenza sull’energia è – secondo la Costituzione vigente – dello Stato e della Regione ad un tempo. Esigenze di carattere unitario – collegate a ragioni di politica economica nazionale – impongono, tuttavia, che solo lo Stato provveda in materia. Questa decisione – perché possa ritenersi legittima – impone che le Regioni (e anche gli Enti locali) siano coinvolti nei processi decisionali. Se passerà il pacchetto delle riforme tale coinvolgimento non sarà più costituzionalmente necessario.
Tale esito non interesserebbe solo le estrazioni minerarie, ma tutta una serie di settori. Se si provasse a fare un “mix” tra tutte queste “materie”, si comprenderebbe chiaramente quale sia l’obiettivo perseguito dal Governo: dare il via libera alla realizzazione delle c.d. “grandi opere”, comprese quelle controverse e contestate soprattutto dalle collettività locali. Si pensi al MUOS in Sicilia o ad Ombrina mare in Abruzzo.
Ma non è tutto. Il testo licenziato dal Governo stabilisce che lo Stato possa intervenire anche in materie non riservate a legislazione esclusiva. In questo modo nessuna delle materie di competenza regionale resterà immune dall’intervento statale. Lo Stato potrà intervenire sempre, in ogni tempo, solo perché magari il Governo avrà valutato che l’esercizio della competenza legislativa della Regione possa compromettere la realizzazione di taluni (non meglio precisati) “programmi”.
Quasi nessuno parla del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP), un accordo di libero scambio fra Unione Europea e Stati Uniti che sta per ricevere l’approvazione della Commissione Europea. Eppure si tratta di un passaggio che potrebbe ulteriormente avvantaggiare le multinazionali del petrolio e del gas. Vuoi spiegarci perché?
Il TTIP ha come obiettivo l’eliminazione delle barriere non tariffarie (behind-the-border barriers) mediante l’uniformazione della normativa europea e americana, in relazione ai prodotti agricoli, a quelli industriali, agli appalti pubblici, all’energia, alle materie prime, alla proprietà intellettuale, alla salute, al lavoro ecc. Ciò comporterà svantaggi per noi europei poiché si tratterà di una uniformazione al ribasso rispetto agli attuali standard europei.
In materia energetica non mancheranno le ripercussioni di questo trattato. Il settore di cui mi occupo è quello degli idrocarburi. Una delle questioni più spinose in questo ambito è il fracking, cioè la frantumazione delle rocce porose di origine argillosa – scisti – mediante l’utilizzo di liquidi saturi di sostanze chimiche. È una pratica molto diffusa negli USA, al punto tale che Obama vorrebbe vendere il gas da scisti all’Europa, sostituendosi, in questo modo, alla Russia. L’Unione europea ha varato una nuova Direttiva VIA, dalla quale, su richiesta del premier britannico Cameron, è stato escluso il fracking ovvero la sottoposizione obbligatoria a valutazione di impatto ambientale di tale attività. In questo modo, ogni Stato membro sarebbe libero di fare quel che vuole. Ed è proprio qui che potrebbe intervenire il TTIP, nel senso che le multinazionali del petrolio potrebbero magari citare in giudizio i governi nazionali, che, come la Francia, introducano misure normative restrittive. Attraverso la clausola “investor-state dispute settlement”, le compagnie petrolifere sarebbero, infatti, autorizzate a rivolgersi ad un collegio arbitrale sovranazionale – che andrebbe istituito una volta raggiunto l’accordo di libero scambio – per chiedere i danni agli Stati membri che impediscano tale pratica e che, dunque, mettano a repentaglio i loro profitti economici. Si pensi al Canada, dove nel maggio dello scorso anno la Lone Pine Resources, che voleva fare ricorso alla tecnica del fracking, ha avanzato una richiesta di 250 milioni di dollari come risarcimento, in quanto la moratoria sul fracking varata dal Quebec avrebbe violato il diritto “to frack”. Che ciò possa pregiudicare la tutela dell’ambiente e, più in generale, quella dei beni comuni, sembra non interessare affatto. E si badi: questa è solo la punta dell’iceberg, in quanto anche i prodotti agricoli e quelli alimentari verrebbero travolti e colpiti dall’accordo commerciale.
Quali sono i progetti di trivellazione che riguardano l’area di costa prospicente la provincia di Taranto? In che modo la cittadinanza può opporsi?
Per conoscere i progetti riguardanti il Golfo di Taranto, così come ogni altra zona d’Italia, occorre consultare il Bollettino Ufficiale degli Idrocarburi e delle Georisorse (BUIG), che viene pubblicato mensilmente dal Ministero dello Sviluppo economico ogni mese. Le richieste sono numerose. Troppe per una Baia qualificata come “storica”. L’unico efficace strumento di contrasto ad attività siffatte resta quello del ricorso amministrativo. Fino a quando – si intende – non si deciderà di mutare indirizzo e di disciplinare diversamente tutta la materia.