Bologna, sabato sera, piazza Maggiore. Luci soffuse mi fanno sentire in una grande casa universitaria, mentre moltitudini eterogenee mi danno la sensazione che la globalizzazione possa essere anche cosa viva. Entro in Sala Borsa per distrarmi un po’; tutta la provincialità che mi porto appresso mi pervade. L’atrio è accogliente e maestoso ed è qui che c’è una tra le tantissime biblioteche che cospargono la città. Forse la Sala Borsa è la più bella, o forse la più affascinante. Faccio la tessera, gratis, e in pochi minuti ho accesso all’enorme materiale a disposizione della collettività. Passeggio per i blocchi del grande archivio e, quasi come dovessi rimettermi a una sorta di riverenza territoriale, vado alla ricerca di qualcosa di Bifo e mi imbatto in un suo libro, una sottospecie di libro collettivo, Skizomedia.
Da Skizomedia tenterò di estrarre – non assicurandovi la bontà del risultato – i concetti più interessanti. Quello di Bifo è contributo preziosissimo sul mondo della comunicazione, utile per schiarirci le idee sul momento che la nostra società sta vivendo. Uno scritto del 2006 ma dall’attualità disarmante. L’argomento trattato e le quasi imprevedibili evoluzioni a cui stiamo assistendo rendono questa peculiarità nient’affatto scontata. Un libro che cerca di avanzare ipotesi sulle prospettive per un uso ribelle di internet e che sviluppa una serie di concetti che vi suoneranno incredibilmente familiari e con cui ritengo utilissimo confortarsi. A voi:
Negli ultimi anni due sono i filoni riguardanti l’innovazione tecnico-digitale e dei suoi effetti sociali. Da una parte ci sono i fautori delle potenzialità di internet: col web si sarebbe messa in moto una sorta di Intelligenza Collettiva in grado di autogovernarsi e che, grazie al fatto di essere interconnessa all’intero mondo della conoscenza, ha una potenza di elaborazione superiore alla mente individuale; il limite è quello di non considerare gli effetti che quest’interconnessione costante ha sulla psiche e sulla socialità.
Dall’altra parte c’è invece il filone della resistenza anti-digitale, che oppone valori umanistici all’invadenza del digitale. Una visione un po’ anacronistica e nostalgica, che sa un po’ di slogan, anche perché contrastare lo sviluppo delle tecnologie comunicative significa, almeno per ora, perdere in partenza.
È nel mezzo delle due visioni che si inserisce il compito del Mediattivista: tra il mediare passivamente e il liberarsi acriticamente dalla dittatura della comunicazione, che ormai occupa tutti i nostri spazi e i tempi della nostra esistenza.
INFOSFERA E PSICOSFERA
Per infosfera si intende uno spazio all’interno del quale vi è un flusso continuo di comunicazione di stampo privata a cui l’essere umano è sottoposto senza soste durante tutta la sua giornata. È l’infosfera che caratterizza la vita dell’uomo del terzo millennio.
In condizione di perfetta trasmissione dei dati informativi (siano essi telegiornali, film e soprattutto pubblicità) si può supporre logicamente che la quantità dei segni emessi sia proporzionale alla capacità di determinare l’opinione pubblica. Questo possiamo prenderlo come dato di fatto.
Ma le condizioni di perfetta trasmissione NON esistono.
Bisognerebbe immaginare una collettività mondiale attenta in maniera univoca e un flusso di informazioni che non contengano ambiguità. Per quanto possa essere totalitario il dominio mediatico dell’infosfera, queste due condizioni non si verificano mai. In più, bisognerebbe considerare la mente collettiva unicamente come ricevitore, passivo, apatico, acritico, ma essa è qualcosa di molto più complesso. Per quanto questi tratti appartengano alla collettività contemporanea, il risultato è anche la produzione di patologie più varie, dal calo dell’attenzione all’aggressività generalizzata, dal diffondersi di fenomeni di apatia sessuale ed emozionale ad epidemie di depressione.
Questo spazio di proliferazione patologica lo possiamo chiamare psicosfera ed è la nostra ultima trincea di difesa per quella che possiamo considerare una vera e propria colonizzazione della mente. Ed è qui che prendono forma alcune difese immunitarie della mente, quella che Umberto Eco chiama “decodifica aberrante”, che è quell’operazione di difesa per la quale spesso, davanti a un interlocutore mediatico fa dire alla nostra mente: “più parla, meno mi fido!”.
A CHI APPARTIENE LA NOSTRA ATTENZIONE?
Un uomo del sedicesimo secolo riceveva nel corso della sua intera esistenza una massa di informazioni non superiore a quella che un cittadino del ventesimo secolo riceve nel corso di una settimana leggendo il New York Times (Saul Wuhrman, Information Anxiety)
L’immaginario globale si forma ormai non più sul linguaggio della parola scritta o parlata, ma sul linguaggio video, assai più pregnante e meno fuorviante, potenzialmente l’unico ad essere slegato da retaggi culturali, nazionali o religiosi. Curioso è il modo in cui questo linguaggio ha caratterizzato la cosiddetta prima generazione videoelettronica, nei primi anni 80, ossia la prima generazione che ha ricevuto più informazioni e insegnamenti dalla tv piuttosto che dai genitori; la generazione che ha avuto meno carezze nella storia(si, Bifo parla proprio di carezze); la prima generazione immersa nella virtualità dalla nascita. È certo ormai da tempo che la presenza costante di televisione nella vita dei bambini porta inevitabilmente a un’atrofizzazione del pensiero e della capacità creativa. Ricerche più recenti hanno confermato questa teoria: se un individuo della prima generazione videoelettronica possedeva l’uso di circa 650 parole, un suo coetaneo di vent’anni prima ne poteva disporre oltre 2000, ed è facile pensare che quello delle nuove generazioni si sia drasticamente ridotto. Basti pensare a quanto possono aver influito in questo senso sms e chat. D’altra parte, le generazioni che sono cresciute in un’Infosfera fitta di segni hanno elaborato una capacità di di lettura delle immagini impensabile, e ciò occupa un elemento decisivo nella capacità di elaborazione del pensiero. Ora, leggete con attenzione questo passaggio: considerando un numero impressionanti di stimoli visivi e sonori a cui sono sottoposte le nuove generazioni sin dalla più tenera età e un’Infosfera così fitta, i nuovi essere umani hanno sempre più difficoltà a mantenere l’attenzione e la concentrazione, perché la mente tende subito a spostarsi, a cercare un altro oggetto. Un processo rapidissimo che procede per associazione sostituendo totalmente la discriminazione critica. Non dobbiamo sorprenderci in questo senso come diventino virali notizie-bomba false che girano in rete.
Se prima il linguaggio presupponeva l’apertura al mondo affettivo, sociale, carnale e anche erotico, ora tutto questo è bypassato da strumenti tecnologici. L’emozione e la parola sono sempre più distaccati, così desideri e pulsioni nascono sempre più nel virtuale, sotto il bombardamento mediatico, che nella realtà affettiva e sociale. E parole senza emozioni alimentano una socialità sempre più povera, ridotta alla logica del do ut des, dare-avere. Questi concetti mi suonano particolarmente riscontrabili nella realtà di tutti i giorni, e a voi?
INFORMAZIONI FALSE PRODUCONO EVENTI VERI
I movimenti di contestazione hanno sempre usato falsificazione, ironia, humor per disinnescare i messaggi del potere ed è così che si presentano le più interessanti prospettive del media-attivismo.
Se il ruolo del mediattivista fosse quello di inserirsi per cercare di combattere il flusso di informazioni asservite significherebbe essere sconfitti ancor prima di cominciare la battaglia. Lo strapotere dei media internazionali (e di quelli locali asserviti) è troppo forte per cercare di contrastarlo con gli stessi mezzi. Bisogna invece bypassare i messaggi, falsificarli così da mettere in luce le contraddizioni, deriderli, perché alla paura catatonica che regalano i media ogni giorno bisogna contrapporre sagacia, ironia e – perché no? – un pizzico di felicità. In questo senso, gli esempi di Lercio.it e Spinoza.it sembrano essere illuminanti. Lo diceva anche Foucault: non credere che occorra essere tristi per essere militanti, per quanto sia abominevole ciò che si combatte. È la connessione del desiderio con la realtà (e non la sua fuga nella forma della rappresentazione) che possiede forza rivoluzionaria. Non credo esistano parole più azzeccate.
Se da una parte il Web ha la peculiarità di dar la possibilità a gente con gli stessi interessi a discutere e incontrarsi virtualmente, facendo in modo che non si rimanga ancorati a precetti, pregiudizi e retaggi del territorio in cui si vive, d’altra parte si accetta di conosce l’altro in uno spazio intermedio e quindi di non conoscerlo nella sua interezza, nella sua diversità. Non conoscere i suoi difetti. Se da una parte la possibilità dell’anonimato mette alla prova continua l’identità dandoci la possibilità di sperimentare la costruzione di una nostra identità quanto più vera, fino a che punto il nascondersi dietro un’identità virtuale fittizia può essere considerato lecito? In quali casi quest’atteggiamento prende forme di abuso e inganno?
POWER IS MAKING THING EASY
I sostenitori delle potenzialità di internet affermano quanto importante sia la rivoluzione nella comunicazione con il Web: si è passati da una comunicazione uno (la radio, la tv) a molti (radio e tele-spettatori passivi) a una comunicazione molti a molti, in un sistema parallelo, orizzontale, paritario, in una parola più democratico. In realtà, se la differenza è sostanziale nella proliferazione del messaggio, non lo è nel senso: chi parla è sempre uno a molti. I guru del marketing usano la parola evangelizzare per indicare la funzione fondamentale del mittente di esortare al contagio i destinatari (vi dice qualcosa l’ormai classico “diffondete!!!” o “sveglia!!!” ?). È qui che nascono i cosiddetti media contagiosi. E, se ci pensate bene, con i social network siamo tutti media contagiosi.
Nel 1992 Bill Gates diceva: il potere consiste nel rendere le cose facili. Dopo oltre vent’anni, il potere l’ha conquistato Zuckberg. Cosa più di Facebook rende le cose facili? Cosa le rende più standardizzate, incanalate? La risposta è la stessa per entrambe le domande.
Siamo quindi per la prima volta all’interno di un flusso che non comincia e non finisce mai, una globale discussione senza inizio e senza scopo.
Questo vi fa capire in ogni caso come tutta la nostra vita, quanto più sarà digitalizzata tanto più sarà produttiva di valore. Basta un “mi piace”, la visualizzazione di un video o di una pagina per essere parte dell’ingranaggio capitalistico di creazione di valore.
In generale, i media contagiosi perseguono i loro obbiettivi mantenendo determinate caratteristiche generali: l’amatorialità (nell’era del web design, un brutto sito stile anni 90 non può che attirare l’attenzione); provocazione; volgarità; demenzialità; sessualità. Una domanda: quante di queste caratteristiche appartengono alla tecnica comunicativa di Grillo?
Conclude Bifo sui media contagiosi: se si tratta di diffondere un brand, questo metodo può risultare molto efficace. Per quanto riguarda l’utilizzo ai fini di critica sociale mantiene dei forti dubbi. Dopo 8 anni dall’uscita di questo scritto, questi dubbi si sono sciolti come neve al sole.
COME IMMAGINARE LA LIBERTA’ QUANDO VIEN MENO LA LIBERTA’ DI IMMAGINARE?
Libertà è una parola di cui ormai si è appropriato il potere. Liberi di fare cosa? Liberi da cosa? Sembra che tutte le pubblicità sottintendano questo messaggio: “sii te stesso, cioè sii quel che dico io”. Come dice Bifo: libertà della dipendenza. Anche l’attività immaginativa è strutturata, delimitata e dunque depontenziata (pensate alle modalità sociali di Facebook: standardizzate all’inverosimile). Nel mondo contemporaneo, anche anticonformismi e controculture vengono inglobate nel sistema e messe a valore produttivo.
La responsabilità del Medioattivista è quella dunque di ricercare un’ecologia della mente, di liberare il pensiero dalla comunicazione. Una sottrazione della mente dal dominio mediatico. Significa inserire (e non re-inserire) lo stupore e la curiosità di fronte al mondo. Nell’apprendere a guardare il mondo con i propri occhi, e non con gli schemi fornitici dalla dittatura mediatica.