Manca veramente poco a che il Ministero dei Beni, le Attività Culturali e il Turismo esali l’ultimo respiro.
Con l’art. 7 del Disegno di Legge n. 3098 (DdL Madia), che prevede la trasformazione delle prefetture in “uffici territoriali dello Stato” che andrebbero ad inglobare tutta una serie di uffici, tra i quali gli organi periferici del MiBACT, le Soprintendenze incassano un’altra pugnalata a spese della loro autonomia: il parere del Soprintendente, già vincolante, andrebbe sottoposto alle decisioni del Prefetto; il che, come ha fatto notare Montanari, «significa far saltare un altro contrappeso costituzionale al potere esecutivo». Le ragioni sbandierate attraverso il vessillo preferito da questo Governo, quello dell’efficientismo – non importa come, ma purchè si faccia – sono le solite: snellire le procedure burocratiche. A danno del bene pubblico, naturalmente.
Nonostante la forte opposizione a questo articolo abbia portato all’approvazione, da parte della Camera, di un ordine del giorno per il quale le funzioni legate al patrimonio culturale debbano restare di pertinenza delle amministrazioni preposte, non è assolutamente chiaro come verrà risolta, di fatto, la questione. Questa norma va infatti ad aggiungersi a tutta una serie di duri colpi ai quali il Ministero è stato chiamato, recentemente, a resistere (o soccombere, dipende dai punti di vista): senza andare indietro al vergognoso “Patrimonio S.p.A.” tremontiano e restando belli ancorati al Renzi-time, si è passati dalla problematica “riforma” del Dicastero allo Sblocca Italia, che aveva già in seno, oltre al depotenziamento delle Soprintendenze, la norma del “silenzio assenso” che il DdL Madia rispolvera nel suo art. 3: in questo caso, c’è stata una levata di scudi da parte del Consiglio dei Beni Culturali e di diverse istituzioni culturali tra cui l’Associazione Bianchi Bandinelli e Italia Nostra.
Insomma, in un panorama che lascia temere il peggio, chi ne pagherà le conseguenze sarà il nostro patrimonio, lasciato sempre più – e con il placet del Ministro Franceschini – alla mercé dei volontari, nonostante si faccia pressante, e da tempo, la necessità di un riconoscimento effettivo della professionalità degli operatori nel campo dei Beni Culturali, sempre più simili a un magma di difficile definizione, sommersi dalle cattive pratiche della cultura fai-da-te e strangolati dalle logiche di mercato; per non parlare del circo delle mostre inqualificabili! Dopo lo Sblocca Italia, questa nuova mazzata alle Soprintendenze – di fatto colpevoli di tenere talmente a cuore l’art. 9 della Costituzione da non concedere autorizzazioni come se piovesse – rischia di rendere sempre meno comprensibile l’esistenza stessa del MiBACT.
Bisognerebbe chiedersi come si sia potuti arrivare a questo punto. In realtà, la domanda è ancora più sottile e concerne le ragioni per le quali, dinanzi al dilagare galoppante di una mediocrità costruita ad uso e consumo del telespettatore, nessuno abbia mosso un dito.
La diseducazione culturale, quella che fa percepire oggi il Professore come uno snob e lo studioso come un pallone gonfiato, è frutto di tutta una serie di attacchi che il privato, attraverso il medium televisivo, ha perpetrato subdolamente negli ultimi venti anni o poco più. Così, mentre la sinistra rincorreva – e fraintendeva – la chimera della subalternità culturale relegando, di fatto, la questione culturale a un ruolo di margine, il servizio di Stato, la RAI, anziché resistere agli attacchi che provenivano copiosi dai programmi di punta di Fininvest e Mediaset – “Striscia la Notizia” su tutti, dove non manca MAI l’attacco alla gestione della cosa pubblica –, ha preferito appiattirsi sul nuovo modello voyeuristico inaugurato, nel nuovo millennio, con la stagione dei reality, dove il messaggio che passa è che anche se non sai fare nulla puoi guadagnare barche di denaro. Questa è la cultura attualmente dominante e radicata ed è chiaro come, di fronte a questa esaltazione dell’incapacità e del denaro, le problematiche legate ai diritti, al patrimonio culturale, alla ricerca e alla qualità professionale diventino, sì, subalterne.
Intanto, nelle stanze dei bottoni si è persa la bussola (o, forse, si è cambiata la posizione del Nord): si è affermata con sempre maggior forza la visione del patrimonio come petrolio, con la corsa all’aggiro dell’inalienabilità per determinati beni del demanio, l’idea che valorizzare voglia dire fare cassa e, di conseguenza, limitando l’accesso alla cultura a chi può pagare per goderne – in barba alle lunghe battaglie di Concetto Marchesi durante i lavori della Costituente per restituire, attraverso l’art. 9, quel patrimonio alla comunità; e, peggio, si è deciso che la cultura può fare a meno dei professionisti perché può tornare, come nei secoli addietro, ad essere un giochino alla cui gestione può attendere chiunque.
Il dramma si è consumato, per cui ci si trova nella paradossale condizione per la quale va spiegato oggi ai ragazzi a cosa serva studiare se, una volta stratitolati, si resta disoccupati; a cosa serva la storia dell’arte se, come accade, trova sempre meno spazio persino nell’insegnamento; perché iscriversi alla Facoltà di Beni Culturali se, come avviene con il benestare delle alte cariche dello Stato, quella laurea non ti inserisce in alcun modo nel mondo del lavoro, non può abilitarti neanche a fare la guida turistica e la gestione di molti monumenti è appaltata alle ONLUS o a singoli volontari. Tralasciando – perché fa male al cuore, forse più di ogni altra cosa – il capitolo ricerca scientifica, limitandomi a dire che, per rincorrere questo presenzialismo strabico facendo leva sul fanatismo da quattro soldi del dire “vivo all’estero” – ancora una volta frutto della società dell’immagine –, si incensa chi va via a portare altrove il suo sapere e si lascia impoverire culturalmente il Paese, abbandonandolo all’ignoranza.
Battaglie come quella contro il DdL Madia, contro lo Sblocca Italia, contro la ristrutturazione del MiBACT, contro il “silenzio-assenso” dovrebbero vedere schierato e compatto un fronte unico di forze che rivendichino l’importanza della cultura nella vita dell’uomo e nell’esistenza stessa dello Stato; invece non riescono ad essere comprese nella loro reale portata perché, oggi, la cultura ha un ruolo marginale, mascherato sotto quella etichetta “culturale” che viene applicata sopra ogni cosa: persino su una Biblioteca Nazionale dell’Inedito.
Allora, forse oggi più che mai, sarebbe il caso di concentrarsi anche su questo punto fondamentale per far partire un processo di più ampio respiro: il patrimonio e le recriminazioni ad esso legate per creare una nuova cittadinanza consapevole del suo ruolo attivo nella società; la cultura come leva per un nuovo sviluppo dello Stato, perché cultura è lavoro, lavoro per il bene comune e non può essere lasciata al volontariato, né può prescindere da una pianificazione sul piano politico. Forse, proprio perché ora tali questioni sono arrivate alla subalternità, la sinistra potrebbe iniziare ad occuparsene con maggior attenzione: peccato che sia fuori dai giochi che contano, continuando a spaccarsi sulle battaglie fondamentali legate al lavoro e ai diritti, in un’atavica incapacità di fare sintesi tra le forze buone che operano sul territorio nazionale, o chiusa a volte nella pretesa di cambiare lo stato delle cose rigettando l’intervento istituzionale, isolandosi nel minoritarismo legato alla retorica delle azioni “dal basso”, mostrando di non rappresentare altro che se stesse, senza incidere veramente nei momenti cruciali.
Non è mettendo i bastoni tra le ruote alla Soprintendenza che si tutela ciò che è di tutti; semmai bisogna far comprendere che se le Soprintendenze sono lente, evidentemente il lavoro da fare è talmente tanto che ci vorrebbe più personale a svolgere determinate mansioni e non, come avviene costantemente, continui tagli: e se i soprintendenti non funzionano «li si rimuova, con decisione e trasparenza» (Montanari). E, ancora, far passare il messaggio importantissimo che cultura e turismo sono due cose separate e distinte, mentre cultura e ricerca sono complementari e un Ministero che si riorganizza, forse, dovrebbe pensare di espellere la “T” di turismo dall’acronimo e cercare di fare seriamente sintesi con il MIUR, come ha spesso ribadito Salvatore Settis, rammentando che il Ministero dei Beni Culturali, nel 1975, è nato da una costola di quello della Pubblica Istruzione e non di quello dell’Economia: da questa concezione della cultura, infatti, ne ha un grosso danno anche la scuola.
StecaS