È una mattina qualunque; mi sveglio e, come di consueto, accendo il mio computer per leggere le notizie del giorno. Navigando su internet mi imbatto in un video di un presunto centro culturale tarantino, di cui non faremo il nome solo per decenza e compassione delle nostre e vostre povere pupille.
Si parla di Sparta, di storia e di traditori. Il passaggio è molto semplice. Taranto, turismo, e gente ignorante che non coglie l’opportunità.
Preso da un iniziale divertimento per la scenetta comica, cado in un improvviso sconforto quando interiorizzo la stupefacente superficialità di alcune argomentazioni, ed inevitabile diviene il cominciare a porsi qualche domanda.
Proverò a restare su un piano generale delle cose, non è il momento, né lo scopo di queste righe, quello di entrare in argomentazioni per “addetti ai lavori”. Semplicemente non serve, ora.
Quello che mi interessa è sottolineare un “disturbo culturale”. Chiamiamolo così, molto banalmente, come se qualcuno o qualcosa si interponesse tra la verità del reale e l’immagine che vogliamo assolutamente e facilmente credere di questa. Parliamoci chiaro, non è Sparta il problema. Sono pronto a scommettere che lo stesso disturbo si sarebbe presentato anche con Atene, Roma, la pizza margherita o il mandolino e gli spaghetti. Ma torniamo indietro, alla base di tutto.
Sicuramente le politiche di questi ultimi venti anni hanno fatto conoscere poco e male ai nostri studenti i metodi di studio. Sì, non tanto i beni culturali o lo scrittore Tizio (che non è davvero uno scrittore), ma proprio il metodo di avvicinarsi ad alcuni studi e gli strumenti che si debbono utilizzare per navigarci dentro. Sicuramente lo smantellamento della scuola pubblica, sempre più privatizzata e modificata in termini aziendali ha massacrato quelle che erano funzioni vitali dello studere, ovvero del desiderare, di sapere. Oggi studiamo per.
Senza ricordarci che dovremmo studiare affinché. È importante questa piccola osservazione, poiché è solo sganciandoci dalla gabbia del dover produrre qualcosa per sopravvivere domani, che entriamo nell’ottica dell’affinchè si possa capire criticamente lo scrittore Caio (anch’esso non è davvero uno scrittore), la civiltà dei Greci, degli egizi, le sollevazioni degli schiavi, le colonizzazioni etc.
Proviamo a declinare queste due piccole alternative al progetto culturale che vede Sparta legata a Taranto.
Studiamo “per” far arrivare i turisti: è il vero brand di questa idea.
Se invece studiassimo “affinché” i turisti non considerassero il bene culturale un oggetto di consumo, facile da ingurgitare con gli occhi, spettacolare, quale risultato otterremmo? Se studiassimo affinché i turisti non siano solo portafogli, ma al contrario gente da arricchire?
Abbiamo un tesoro, che non è solo Sparta, anzi forse quasi nulla di questa, condividiamolo coscienziosamente. In tal senso mi pare che sia di grande esempio il lavoro sulla Chiesa S. Andrea degli Armeni nel borgo antico.
Del mitizzare delle cose: il potere taumaturgico.
Durante un’intervista de «L’Espresso» nel 1979 Furio Jesi definì la destra in questi termini:
la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.
Inserito nella controcultura degli anni settanta, Furio Jesi, che trovava nella semiotica uno strumento di critica dell’ideologia, mostra come i valori borghesi si siano ipostatizzati, diventando una vera e propria mitologia; e, dopo aver individuato in quella cultura la stessa matrice del fascismo, ne riconosce i frutti anche dentro la ‘nuova’ società della comunicazione, del consumo e dello spettacolo.
Le immagini semplificate della realtà sono ‘mitologie comunitarie’ che forniscono risposte facilitate per società in crisi e, indipendentemente dal segno politico di superficie, operano allo stesso modo nel definire con autorità/violenza antidemocratica modelli ideali e cristallizzati di identità, con l’obiettivo di modificare l’esistente.
La società oggi pienamente realizzata, nella quale i media hanno ridelineato in modo permanente l’immaginario, hanno tecnicizzato nuovi miti incantatori al servizio del potere e hanno permesso l’affermazione di una destra diffusa, antidemocratica, antiintellettuale, neoliberista, edonista, securitaria, xenofoba[1]
Ad annunciarsi predicatori e operatori culturali oggi ci sono tutti. La Cultura è il mito taumaturgico. La via per la quale si manifesta l’alternativa e la possibilità del miracolo, soprattutto economico. Cultura – così come Ambiente o Futuro – sono parole svuotate interamente del loro significato poiché non costruite, poiché campeggiano senza fondamenta in un mare di slogan che modellano progetti, modus vivendi assolutamente reazionari e populisti. Sorge però la necessità di incontrarsi, discutere e produrre riflessioni che si manifestino concretamente sul territorio. Costruire dal basso, condividendo saperi, ciascuno fuori dal proprio orticello, una visione intera di città oggi troppo frammentata e schiava del ricatto della fabbrica e di quelle poche altre cose che si pongono come struttura del nostro territorio.
Perché è necessario farlo? Perché ancora oggi si giocano carte importanti su quello che possiamo e potremo essere da qui ai prossimi dieci anni, perché cominciare un percorso almeno di confronto è sempre un momento che va oltre i personalismi e l’individualismo dilagante, perché solo l’organizzazione sconfigge la deriva mitica di chi brancola nel buio.
vedi: Il linguaggio delle «idee senza parole». La Cultura di destra in Furio Jesi, Enrico Manera