Prima parte di una satira gialla. Giallo-birra per l’esattezza. Godetevela oggi e la settimana prossima.
«Dotto’» disse Spada «ti ci manca la birrozza, eh?»
«Non bevo birra, Spada.»
Merli aveva tirato fuori dalla busta il panino con crudo e mozzarella e una bottiglia d’acqua. Spada, invece, rimaneva in piedi davanti alla scrivania, le braccia dietro la schiena. «Ne vuoi un pezzo?» fece, pronto a strappare un lobo della rosetta con un pizzico.
«No, grazie, dotto’. Molto gentile, comunque.»
«Non mi va che te ne stai lì a guardami in silenzio.»
«Ti racconto una barzelletta. Ne so una sulla birra che fa morire.»
Merli sospirò. Quando Spada tirava fuori le sue barzellette era inutile fare complimenti, così si appoggiò allo schiena e annuì. Addentò il panino e mandò giù il boccone con un sorso d’acqua, mentre Spada si strofinava le mani.
«Allora, c’è un barbone che ogni notte si corica nel sottopassaggio di via Dante. Di lì ci passa ogni notte un gay coi soldi, okay? Una notte il gay vede il barbone, gli piace, se lo porta in macchina che dorme ancora, se lo fa e poi lo mette di nuovo sotto il ponte con venti euro in mano.»
«Mh-mh…» fece Merli, la bocca piena. Le barzellette politicamente scorrette di Spada…
«Questo succede per un bel po’ e con quei soldi il barbone, che non sa chi glieli dà, si va a comprare la birra. Dopo una settimana che va avanti ‘sta storia, il barbone va in salumeria. “Ue’, Giua’” dice il salumiere “la solita Dreher?”, e il barbone… ah ah… il barbone: “No, Pe’, dammi la Heineken, che la Dreher mi fa bruciare il culo”. Ah ah ah! L’hai capita, dotto’? La Dreher che gli brucia il culo!»
Merli staccò con la lingua del grasso dai denti. «Va’ a prendermi un caffè, prima che ti arresti.»
Squillò il telefono. Merli alzò la cornetta e rispose dopo aver ingoiato. «Ispettore Merli. Uh-uh… uh… Capisco. Non è distante da qui, dunque. Va bene, arrivo.» Lasciò il panino a metà, richiamò Spada. «Una segnalazione anonima, c’è un cadavere a cinque minuti da qui.»
Merli, insieme a Spada, Betti e Tanzi – la sua squadra solita –, si recò in via Golfo di Taranto, angolo via Lago di Monticchio, a cinque chilometri dalla Questura. Sul posto c’era già l’ambulanza, ma i paramedici se ne stavano seduti nel vano senza far niente.
Andarono nell’erba. Facevano luce con le torce dei telefonini. Tanzi stava armeggiando con la reflex. Avevano già avvisato il reparto della scientifica, e intanto avrebbe dato un’occhiata. Il medico dell’ambulanza era chino sulla massa amorfa, inerme e fredda.
Merli calpestò una bottiglia di birra. «Stupidi vandali» disse. Poi si accorse che accanto al corpo c’era un’altra bottiglia, e vicino alla testa del morto un’altra ancora. Ne contò sei. Il medico gli strinse la mano.
«Buonasera, sono l’ispettore Merli.»
«Merli… ispettore Merli… dov’è che l’ho già sentito?»
«Sui giornali di due anni fa. L’affare “Dragontown”.»
«Mh… no, mi dispiace, non mi sembra di aver letto niente a riguardo…»
Merli scrollò le spalle. «Lasci perdere. Allora, cos’abbiamo qui?»
Il dottore gli passò dei guanti elastici. Tanzi aveva appena cominciato a sparare flash sul cadavere. In quei brevi sprazzi di luce, Merli riuscì a cogliere il volto gonfio del morto, la poltiglia intorno alla testa e le croste chiare sotto il naso e intorno alla bocca. Le bottiglie riflettevano i flash.
L’odore era quello di acido alcolico stantio, con una puntina di carne putrida. Merli cercava di resistere, era abituato al puzzo dei cadaveri, fin troppo bene, ma in più lì v’era l’odore dei vicoli intorno alle discoteche, dove i ragazzi sgravavano lo stomaco dopo lo sballo.
«Non posso dire granché, ispettore» disse il medico. «È troppo buio, ma direi che è morto soffocato dal suo stesso vomito. È gonfio e anche la pancia lo è. Anche a giudicare da tutte queste bottiglie di birra, qui intorno, direi che è stato per l’alcol.»
Merli toccò con la punta della scarpa una bottiglia. Erano bottiglie di Raffo.
Merli ignorò il sottoposto e si rivolse al medico. «Chi vi ha fatto la segnalazione?»
«Abbiamo ricevuto una chiamata da qualcuno che stava male. Non si capiva bene, mentre parlava sembrava stesse vomitando. Ha detto “Aiuto, sto male. Venite in via Golfo a Taranto Due, aiuto!” e ha chiuso. Più o meno ha detto così.»
Merli si passò le dita sul mento ispido. «Non vedo il cellulare. Betti, tu e Spada andate a farvi un giro per queste palazzine. Chiedete se sapete di qualcuno che si è sentito male, o se hanno notato qualcosa di strano.»
«Seh, che mo ce lo vengono a dire, dotto’…»
«Andate, andate.» Merli piegò le ginocchia, si sporse sul cadavere. La tasca del pantalone era gonfia del portafoglio, legato tramite una catenella a un passante per la cinta. Chiese al dottore di far luce e trovò tutti i documenti al loro posto, insieme a qualche spicciolo e cinquanta euro intere.
Lesse la carta di identità. Gallo Domenico, nato il 5 agosto 1982, residente in Bari. Cercò ancora nel portafoglio e vi trovò due biglietti del treno regionale, di cui uno già timbrato alle ore 18,15 alla stazione Centrale di Bari.
C’era altro. A parte qualche fotografia e tagliandini per il caffè omaggio Merli rinvenne un biglietto strappato per il concerto dei “Tempesta d’Oro” di quella sera, al Palamazzola. Ne era al corrente, aveva assegnato lui gli uomini per il concerto.
Il dottore lo osservava. «Si è fatto un’idea, ispettore?»
«Per ora ho solo un’ipotesi: era strafatto da star male e i suoi amici l’hanno abbandonato, poi hanno chiamato il pronto soccorso e si sono dileguati. Chiunque l’abbia portato qui e ha poi fatto la segnalazione è di Taranto, forse vive in questo stesso quartiere.»
Il dottore batté la mano all’anca. «Ma perché non l’hanno portato subito in ospedale?»
«Per paura.» Merli si rialzò. «Lei come giustificherebbe un’overdose, dottore? Aspetterò il referto del medico legale, ma nel frattempo mi farò venire in mente qualcosa. Di sicuro avranno fatto sparire il cellulare del ragazzo, dopo averlo usato per chiamare voi. Devo rintracciare la famiglia.»
«Già» fece il medico. «Chissà i genitori…»
Il guanto scattò via dal polso frustando l’aria. Merli strinse la mano al dottore.
«Dragontown!» esultò il medico. «Ora ricordo. Ma poi l’indiano l’ha costruita l’università?»
Merli gli voltò le spalle, le mani in tasca. «Non ha fatto un cazzo di niente» disse «come tutti.»
Non fu facile. Dopo aver recuperato il numero di telefono dei signori Gallo, Tanzi si occupò di chiamare il padre, che si mise in auto alle tre del mattino, da solo. All’obitorio, riconobbe subito il figlio, svenne, ebbe una crisi di pianto e solo all’alba fu in grado di incontrare Merli.
Merli era rimasto sveglio, nel suo ufficio, tra bicchierini di caffè vuoti.
Il signor Fausto Gallo, commerciante, era entrato nell’ufficio che ancora piangeva. Spada si offrì di portargli qualcosa di caldo da bere, mentre Merli si limitò a stringergli la mano e a fargli le condoglianze. Lo fece accomodare.
«Domenico aveva conoscenze a Taranto?»
«Non so, forse. Lui… lui seguiva solo questa band musicale… a me non piaceva, a sua madre nemmeno. Era rumore, non era musica, ma ci teneva a sentirli, così è venuto al concerto. È indipendente da noi, lavora con me, fa il rappresentante.»
«Ed è venuto da solo?»
«Sì. Ce ne aveva parlato ieri che i suoi amici non erano voluti venire.» Fausto si commosse, le labbra gli tremarono «Era dispiaciuto che nessuno voleva andare con lui, ma se ne fotteva che nessuno volesse accompagnarlo. Se ci fosse stato qualcun altro con lui, forse…»
Merli lasciò che il signor Gallo si liberasse ancora un po’. Lo guardò asciugarsi gli zigomi puntuti e le guance scavate senza dir nulla. Ritornò Spada con un tè fumante, che Fausto assaggiò, per poi abbandonarlo sulla scrivania.
«Ascolti, signor Gallo» fece Merli «comprendo il momento, ma ho bisogno di sapere da lei una cosa fondamentale.» Merli, le mani sul tavolo e le dita intrecciate, tacque e studiò l’espressione devastata dell’uomo. «Suo figlio ha mai fatto uso di…»
Fausto chinò il capo. Disse «No.»
Continua…