L’arte in sé può essere autosufficiente, ma a volte ha bisogno di essere guidata, estrapolata, ricondotta a una dimensione più personale. Ricollocata nella vita, insomma, al di fuori delle stanze chiuse o dei limiti imposti dalla semplice esposizione delle opere. Occorre, insomma, fare uscire il soggetto dall’intelaiatura, come accade nel quadro di Pere Borrel Del Caso, Sfuggendo alla critica, che compare, non a caso, sulla copertina del bel libro di Stefania Castellana, Cornici – Racconti ad arte, da poco uscito per i tipi di edit@. Perché in effetti di fughe parliamo, di elementi che tracimano dallo spazio ristretto, di qualcosa che va al di là della tecnica e chiama in causa direttamente le emozioni che il dipinto è di volta in volta in grado di evocare. 11 racconti per altrettanti quadri, che l’autrice passa in rassegna senza intenti meramente didattici, ma costruendo piccole vicende collegate alle opere o, in maniera più precisa, ai pensieri e alle sensazioni che le immagini hanno evocato nella sua mente.
Di per sé è già a monte un intento interessante, perché ci ricorda come tali opere, al di là dell’intoccabilità garantita dalla Storia (quella con la maiuscola) e dalla loro presenza in prestigiosi musei, nascano poi da un sentire che è prettamente umano, intimo, personale, e spesso germogliano in situazioni forse difficili, emotivamente complesse, ma comunque mai asettiche, mai “imbrigliate” in uno schema come l’idea della cornice potrebbe erroneamente far pensare. L’arte è viva, insomma, ed è fatta di uomini e di storie, in una struttura concatenata dove l’opera non è più soltanto il prodotto finito, ma, nascendo dal personale vissuto degli autori, produce nuove storie man mano che si offre al pubblico. Che in questo caso è l’occhio di Stefania Castellana, e il libro ci racconta cosa ha visto e cosa ha provato.
La scrittura in sé cerca un abile compromesso fra la semplicità delle storie (da intendersi come intelligibilità, quindi in senso accrescitivo, universale e non diminutivo) e una certa ricercatezza dei termini, in grado di evocare l’idea della creazione, della disposizione delle parole come i colori sulla tavolozza del pittore, in un gioco di rimando intertestuale tanto più riuscito quanto appare non gratuito, ma comunque intellettualmente vivace. La sensazione è quella della passione e del gioco, dove spesso i personaggi hanno i nomi dei pittori, dove la stessa autrice sembra a volte chiamarsi in causa, instillando gocce di realtà nel tessuto di vicende totalmente immaginarie. Le storie, dal canto loro, raccontano di solitudini, amori perduti, malinconie: lo fanno in modo fugace, a volte con una conclusioni spiazzanti e, soprattutto, con un’attenzione particolare alla sensualità evocata dall’arte in quanto forma d’amore e di contatto fra corpi e materie – il passaggio del pennello sulla tela, in fondo, può essere quasi visto come una metafora del rapporto d’amore, che genera l’arte ovvero la vita. C’è un po’ di tutto in un’antologia minuta nelle dimensioni (appena 64 pagine) ma corposa nella selezione e negli stili pittorici prescelti, dall’impressionismo, al cubismo, al surrealismo (e la galleria dei nomi coinvolti è da brividi: Kokoschka, Degas, Van Gogh, Picasso, Cezanne e via citando).
Una menzione particolare va all’ultimo racconto, La vestizione della sposa (ispirato dall’omonimo quadro surrealista di Max Ernst), dove la sensualità si sposa a una prosa immaginifica e particolarmente ispirata dall’invenzione fantastica, che permette al lettore di accomiatarsi dalla scrittura con il piacere di un viaggio in un mondo tanto vicino quanto liberamente distante dalla realtà. Fuori dalla cornice, insomma.
Davide Di Giorgio