Quando parliamo di “Tempa Rossa” parliamo di un progetto che prevede lo sviluppo dell’omonimo “Centro Oli” in Basilicata, dove il greggio verrà estratto e trattato, e successivamente stoccato e smistato nei pressi del porto di Taranto. Perché ciò sia possibile, sono previsti due serbatoi da 180 mila metri cubi per lo stoccaggio e l’allungamento di 350 metri del pontile Eni dove dovranno attraccare le petroliere per caricare il greggio. La joint venture “Gorgoglione” (proprietà di Total, Shell e Mitsui), che detiene il Centro Oli e che è promotrice del progetto, assicura strabilianti vantaggi e bassissimi rischi per i territori coinvolti.
Dal sito Total si legge, infatti, che non ci saranno “emissioni aggiuntive rispetto ad oggi”, che anzi ci sarà il taglio di 64 tonnellate di emissioni; e ancora che si prevedono “positive ricadute occupazionali in Puglia e in Basilicata “.
In effetti, però, non è proprio come ce la raccontano perché molti punti sono da chiarire.
Giorgio Assennato ha chiesto che le compagnie documentino l’abbattimento delle emissioni in un progetto affinché sia valutato. Il timore dell’Arpa è che l’area trasformata in un gigantesco deposito di greggio possa determinare un aumento del 12% delle emissioni tossiche. Inoltre, bisognerà valutare anche il danno sanitario delle nuove attività.
E ancora: nel Mar Grande di Taranto transiteranno 2,7 milioni di tonnellate di petrolio ogni anno, con un aumento del traffico di petroliere compreso tra le 90 e le 140 navi, ed è ragionevole credere che questo potrebbe aumentare il rischio di sversamenti di inquinanti in mare. I porti più trafficati da petroliere sono anche quelli più inquinati da idrocarburi derivanti da petrolio, secondo uno studio dell’ISPRA.
Ma lo scenario non sembra così drammatico per i Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico, che hanno approvato dal 2011 le procedure di autorizzazione. A questo punto bloccare la parte terminale del progetto, quella cioè che vede coinvolta Taranto, significherebbe bloccare tutto il progetto. E bloccare Tempa Rossa va esattamente nella direzione opposta rispetto a quella auspicata dal PD di Matteo Renzi: il decreto “Sblocca Italia”, infatti, sbloccherebbe anche moltissime grandi opere per niente green.
“Tempa Rossa”: a chi giova?
Alla luce di ciò viene spontaneo chiedersi a chi convenga la realizzazione di un’opera che, sul piano ambientale, incide su realtà già profondamente segnate (tanto la Val d’Agri quanto la provincia jonica). Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo prima chiederci quale sia la strategia energetica del governo.
Ci sono due tendenze apparentemente contrastanti, che in realtà offrono una risposta chiara e non rassicurante. Mentre il governo autorizza un numero crescente di trivellazioni, Eni annuncia piani di ridimensionamento della capacità produttiva. Dal punto di vista dell’economia nazionale questa dinamica è contraddittoria: l’aumento della produzione di greggio, in assenza di raffinerie, alimenterà le esportazioni, ma allo stesso tempo determinerà l’incremento delle importazioni di benzina e altri derivati del petrolio, che in misura crescente saranno realizzati all’estero. La conseguenza sarà un peggioramento della bilancia energetica italiana.
Se il sistema paese ci perde, chi ci guadagna da tutto questo? Naturalmente le multinazionali del settore, che potranno continuare a estrarre petrolio pagando royalties ridicole (in Italia sono fra le più basse d’Europa), raffinarlo dove il costo del lavoro è relativamente basso e lucrare così lauti profitti. Lasciando le “esternalità negative” (leggi devastazione di interi territori) sulle spalle delle popolazioni “trivellate”.
Insomma, se il governo ha una strategia energetica, questa coincide con l’interesse delle multinazionali del settore, e si scontra con quelli dell’economia nazionale e delle comunità locali. Non è un caso dunque che importanti gruppi imprenditoriali guardino con crescente interesse a questo settore. Si veda la nomina di Marcegaglia alla presidenza di Eni, cui potrebbe far seguito l’acquisto di quote di capitale dello stesso gruppo da parte di altri soggetti a seguito della privatizzazione.
L’imprenditoria italiana, incapace di affrontare la crisi promuovendo un rinnovamento complessivo del nostro sistema economico e la sua riconversione in senso ecologico, corre a rifugiarsi in posizioni che possano garantirle guadagni sicuri. E il governo asseconda questi appetiti. In questo senso vanno anche le privatizzazioni dei servizi pubblici locali – con buona pace del risultato del referendum del 2011 – e la messa a valore del patrimonio artistico prospettata dal ministro Franceschini.
Quali alternative energetiche agli idrocarburi?
Gli idrocarburi non sono tuttavia le sole fonti energetiche attualmente disponibili. Come ben sappiamo, esistono anche fonti rinnovabili, il cui impatto ambientale è nettamente inferiore. Per chi, come noi, si pone l’obiettivo di una riconversione ecologica del sistema produttivo è indispensabile trovare il modo più efficace per sviluppare al massimo l’utilizzo di queste fonti.
Da diversi decenni gli Stati dei paesi più sviluppati hanno finanziato, più o meno direttamente, la ricerca in innovazione tecnologica di base, che ha permesso poi ad imprese private di sviluppare idee che, altrimenti, non avrebbero mai avuto attuazione pratica.
Al momento i risultati migliori li hanno conseguiti quei paesi che hanno stabilito una vera e propria pianificazione generale in termini di riduzioni di fonti inquinanti: in particolare, quei paesi che si sono dati gli obiettivi più ambiziosi sul piano della crescita della quota di energie rinnovabili, e che hanno impegnato cifre consistenti nel sostegno all’innovazione in questo campo.
La Germania dal 2009 ha dedicato almeno il 25% degli stanziamenti complessivi in tecnologie pulite; la Cina dal 2008 ha utilizzato il 35,8% degli stanziamenti statali complessivi per progetti verdi, mentre Obama ha destinato solo l’11,5% del pacchetto di investimenti complessivi in energia pulita.
L’Italia in questa immaginaria classifica neanche compare, tanto sono risibili i suoi investimenti in energie pulite. Il nostro paese si è limitato a sovvenzionare produttori e installatori che, finiti i finanziamenti pubblici, hanno minacciato di delocalizzare se non gli fossero stati concessi ulteriori vantaggi, come è successo a Taranto con Vestas e con Marcegaglia.
Alla luce di ciò, il messaggio che noi vogliamo lanciare è il seguente: perché finanziare imprese private – che commercializzano solo il prodotto finale frutto degli investimenti statali intascandone il profitto o che si limitano a spremere i sussidi pubblici – e non creare aziende pubbliche altamente qualificate e finanziarle direttamente con cifre in grado di garantire gli interessi della collettività? Perché non inserire tutto questo in un Piano energetico nazionale che finalmente ponga come prioritario lo sviluppo delle fonti rinnovabili? Le ricadute di un simile Piano sulla nostra economia sarebbero estremamente significative: non solo in termini di ridimensionamento della dipendenza da fonti fossili, ma anche sul terreno della ricerca, dello sviluppo tecnologico e quindi dell’impiego di giovani altamente qualificati, oggi costretti ad emigrare.
Un nuovo modello di sviluppo per Taranto
Il tema generale di una politica industriale “verde” si inserisce in quello, più ampio, del nuovo modello di sviluppo da dare a Taranto e all’intero paese. La logica del profitto nella nostra città ha assunto forme particolarmente feroci e l’esplosione della contraddizione ecologica da essa innescata oggi mette a rischio l’esistenza stessa della nostra comunità. Come se ne esce?
Anzitutto, rigettando la stessa logica del profitto. Non possiamo più farci illusioni: non saranno nuove “grandi opere” a salvarci, né i tentativi di galleggiamento della “borghesia stracciona” di casa nostra; soprattutto non possiamo credere che il mercato risolverà spontaneamente i problemi che esso stesso ha provocato.
Oggi è indispensabile immaginare un Nuovo intervento pubblico che sia profondamente innervato nelle forze vive della società. Un intervento pubblico che sostenga attivamente, attraverso l’erogazione diretta ed indiretta di reddito, le iniziative che tanti giovani oggi portano avanti gratuitamente: i servizi o i beni prodotti da queste realtà sono valori per tutta la comunità, ed è giusto che la comunità le remuneri. Com’è opportuno che queste forze contribuiscano direttamente alla elaborazione delle politiche pubbliche, attraverso forme di programmazione e di bilancio partecipato.
Questo discorso include quello sulla Cultura, argomento insistentemente dibattuto a Taranto, anche in modo un po’ strampalato. In questi giorni in tanti parlano del dissesto idrogeologico che caratterizza ampie parti del paese, ma quasi nessuno sembra rendersi conto del “dissesto culturale” dilagante. Eppure i segni di questo dissesto sono ovunque. Di fronte a tutto questo è necessario ricostruire un’infrastruttura culturale pubblica. Quello che vorrei dire “forte e chiaro” è che la cultura non è un affare; la cultura è una di quelle cose che tiene unite un insieme di persone, che altrimenti sarebbero solo una massa di individui in competizione. La cultura va quindi sottratta alla logica del profitto e intesa in una logica di bene comune. Noi vogliamo più asili, scuole, biblioteche, teatri, pinacoteche, centri di aggregazione per gente di tutte le età, sedi universitarie qualificate, servizi per gli studenti; vogliamo che tutte queste attività siano disseminate nei quartieri, per creare un’alternativa concreta allo spaccio e alla criminalità; vogliamo politiche abitative che eliminino le “zone-ghetto”. Non sappiamo che farcene di monumenti e giochi d’acqua: a Taranto abbiamo già avuto chi ha provato a governare con passerelle e lustrini, e non è andata a finire bene.
Riusciamo allora, anche da Taranto, a elaborare una “programmazione dal basso” delle attività culturali che andrebbero sviluppate in risposta ai bisogni reali e costruire su quella base una piattaforma di rivendicazioni? Questa è la sfida che dobbiamo affrontare immediatamente!
Infine, anche l’opera di bonifica offre margini per una programmazione pubblica di ampio respiro e di lungo periodo. In essa possono essere impiegate le forze migliori del mondo della ricerca per studiare e trovare soluzioni; si può dare impulso alla nascita di nuove attività specializzate. Insomma, si può mettere in moto un processo di sviluppo virtuoso che sedimenti competenze e capacità in grado di continuare ad operare anche a bonifica completata.
Piani per le fonti rinnovabili, per la bonifica del territorio e per la ricostruzione dell’infrastruttura culturale, reddito, riorganizzazione urbanistica: questo noi opponiamo a Tempa Rossa e, in generale, allo Sblocca Italia.
Si tratta di un’alternativa netta: da una parte, c’è la prospettiva di reale modernizzazione dell’Italia attraverso l’investimento in ricerca, innovazione, inclusione e sicurezza sociale. Ci sono le forze vive del paese! Dall’altra, c’è la rendita parassitaria e il vecchio modello di sviluppo fondato su speculazioni, colate di cemento, disprezzo dell’ambiente, avvelenamento e sfruttamento generalizzato.
Siamo ad un bivio e il futuro di noi tutti dipenderà anche dalla nostra capacità di far valere le nostre ragioni, di costruire consenso sui nostri progetti, di promuovere la nascita di un’alleanza fra chi non si rassegna al degrado.
Al lavoro e alla lotta!
* Estratto della relazione tenuta in apertura del dibattito “L’energia della bellezza contro petrolio e cemento” (Taranto, 21/11/2014)