Emiliano Brancaccio, ricercatore in Economia politica all’Università del Sannio, è uno dei pochi economisti eterodossi italiani. Fa parte cioè di quella risicata schiera di studiosi che criticano con metodo scientifico (quindi sulla base dei fatti) le teorie economiche neoliberiste – particolarmente gradite al capitale finanziario e ai politici che ne curano gli interessi. Da un punto di vista accademico, essere eterodossi significa non essere particolarmente ben visti da apparati burocratici filo-governativi che, con criteri pseudo-scientifici, decidono le carriere dei professori di economia (di questo parleremo prossimamente con il Prof. Forges-Davanzati). E’ certo che, in un contesto politico e culturale di questo tipo, non solo emergere, ma anche semplicemente diffondere la conoscenza, da economista eterodosso, non è affatto cosa semplice. D’altra parte, se in tiene in conto che il Prof. Brancaccio è stato nel 2013 addirittura il promotore di un appello contro le politiche di austerità dell’Europa pubblicato sul Financial Times e sottoscritto da numerosi economisti di fama mondiale, c’è da dire che lui ci è riuscito.
In questa sede vi proponiamo il resoconto dell’intervento del Prof. Brancaccio a Eur-Hope, il convegno svoltosi a Bari dal 24 al 27 settembre, di cui vi abbiamo già parlato da queste colonne.
«Eur-Hope è una parola che evoca speranza. Esiste una modalità moderna, razionale ed illuminista per predicare speranza: praticarla sulla base della conoscenza approfondita della realtà che ci circonda. Evocare la speranza su basi provvidenzialistiche e religiose è storicamente, culturalmente e filosoficamente un’operazione di destra. Se la sinistra vuole razionalizzare e legittimare questo sentimento, deve compiere un’operazione dalla quale è rifuggita negli anni passati: dobbiamo misurare questo sentimento alla luce della conoscenza della complessità delle cose; esiste molto spesso una grande distanza tra fatti ed auspici e, oggi, è sempre più faticoso far emergere i fatti.
A tal proposito vorrei accennare ad un tema molto spinoso, sul quale si è dibattuto ben prima delle ultime elezioni in Grecia e si continua a dibattere ancora oggi: il giudizio sull’operato di Alexis Tsipras. Tsipras è stato definito da alcuni “traditore” perché ha sottoscritto un memorandum imposto dalla Troika in contraddizione con gli esiti del Referendum greco di Giugno. La definizione di “traditore” è aderente ai fatti? Ho criticato più volte l’idea che la vittoria elettorale di Syriza potesse imprimere una svolta alle politiche economiche europee, perché questa idea non è aderente alla realtà dei rapporti di forza in Europa (2). Eppure io non credo che ci siano le condizioni per poterlo definire razionalmente “traditore”: i dati e gli studi di cui disponiamo (3) ci fanno elaborare una tesi razionale: se il Governo greco avesse deciso di uscire dall’Euro, non sottoscrivendo il memorandum, per i primi due-tre anni la Grecia avrebbe avuto assolutamente bisogno di un finanziatore estero che sostenesse l’immediato incremento di prezzo delle importazioni di materie prime di cui la Grecia ha bisogno. Tsipras ha più volte sostenuto che nessuno si è fatto avanti, mentre altri sostengono che il finanziatore ci fosse; fin quando non risolveremo questo arcano non saremo in grado di dare una valutazione sulle mosse del governo greco in questi ultimi tempi: ciò dà l’idea della complessità delle cose.
Molto spesso ci innamoriamo di idee che, nell’attuale difficile situazione, possono confortarci. Una di queste è la proposta di taglio del debito greco sostenuta anche dal Fondo Monetario Internazionale. La domanda che una sinistra razionale dovrebbe porsi è: il taglio del debito potrebbe dare una prospettiva risolutiva per far trionfare politiche anti-austerità e dare una prospettiva alla Sinistra Europea? La risposta è no: se anche si riuscisse a trovare un accordo su un taglio molto cospicuo (e io ho più di un dubbio), il debito sarebbe destinato a esplodere nuovamente se ci ritrovassimo (come succede ora) con tassi di interesse sul debito sistematicamente più alti dei tassi di crescita dell’economia greca. Questo esempio serve a fa capire che non dobbiamo innamorarci di singole azioni di politica economica che pretendono di offrire soluzioni definitive a situazioni complesse: occorre una visione complessiva delle cose proprio perché la situazione è complessa.
In relazione all’endemica eccedenza dei tassi di interesse pagati sul debito rispetto ai tassi di crescita del reddito, possiamo domandarci se il problema dell’Eurozona è stato risolto. Qualcuno dice che, ora che i greci hanno firmato il memorandum, il problema è risolto; in realtà ci troviamo di fronte ad un enorme problema di sostenibilità dei debiti, che continuano a crescere soprattutto nel Sud Europa. Non crescono solo i debiti pubblici, ma anche e soprattutto quelli privati – e questa è una situazione tecnicamente insostenibile, che tale resta.
Sull’assetto dell’Unione, sull’Euro e sull’Europa, la sinistra non ha ancora maturato un punto di vista autonomo; non riesce cioè a sviluppare il punto di vista del lavoro sulle dinamiche capitalistiche. Noi siamo subalterni ad idee prodotte da altri soggetti, che di sinistra non sono: l’internazionalismo retorico che viene portato avanti dagli interessi del grande capitale europeo, ed il nazionalismo retrivo, xenofobo e talvolta ammantato di fascismo che viene sostenuto dai portatori di interessi dei piccolo capitali in difficoltà sparsi all’interno del continente. L’internazionalismo è difeso perché è sostenuta la libera circolazione dei capitali a livello europeo e ci troviamo nell’eventualità che questa libera circolazione dei capitali si mescoli con il blocco totale della libera circolazione di persone. Ci troviamo di fronte ad una miscela perversa di liberismo e xenofobia.
Un modo per interpretare, raccontare e modificare le cose esiste e si chiama internazionalismo del lavoro, che è cosa diversa sia dall’apologia dell’Euro di cui si sente sempre parlare, sia da qualsiasi forma di nazionalismo retrivo. Si potrebbe pensare di ritornare all’ internazionalismo del lavoro rispolverando una questione chiave, da sempre bandiera delle sinistre nella lotta per una nuova organizzazione del lavoro: laddove alcuni parlano di libera circolazione di capitali e guerra all’immigrazione, la sinistra dovrebbe tornare a discutere di controllo dei movimenti capitali, di vincoli ai movimenti di capitali nei confronti di quei paesi che adottano politiche di competizione salariale, politiche di attacco all’ambiente (perpetrate anche da paesi insospettabili) e politiche di attacco ai salari (l’avanzatissima Germania è la più accanita sostenitrice della deflazione relativa dei salari tra i propri lavoratori). Cominciare a parlare di queste cose, invece che concentrarci sulla riduzione del costo del lavoro nel Sud-Est asiatico, vuol dire costruire una chiave di lettura autonoma e laica alle false narrazioni dell’internazionalismo retorico dei grandi capitali e del nazionalismo retrivo degli interessi del piccolo capitale in Europa. Se non lo facciamo corriamo il rischio di essere dominati da una miscela perversa di liberismo e xenofobia».
(1) L’ultima critica è contenuta in questa intervista di Luca Sappino su Espresso.
(2) Due analisi degli effetti dell’Eurexit sui salari e sulla bilancia commerciale dei paesi coinvolti sono qui e qui