Da qualche giorno è online uno stralcio di Florence, la trasmissione sulle ‘bellezze’ di Firenze condotta dall’ex presidente della provincia toscana, ex sindaco della città medicea, ex capo del Governo ed ex segretario del PD Matteo Renzi. Giova ricordare tutto quello che è stato perché, a dispetto di quanto si possa arguire da questo passaggio al piccolo schermo, la storia conta molto. Come sempre.
Durante questa carriera politica nemmeno lunghissima ma, certo, a livelli molto alti, Matteo Renzi non ha mai smesso di utilizzare a scopo propagandistico il patrimonio e la cultura, sia attraverso iniziative di dubbia utilità come quelle condotte proprio su Firenze (dalla ricerca di Leonardo in Palazzo Vecchio all’ipotesi di costruzione della facciata di San Lorenzo, e altre mirabolanti storie come quando, un giorno, nella stazione di Santa Maria Novella, era eretto su un piedistallo a declamare la Divina Commedia) che tramite le oramai celeberrime battaglie condotte contro le Soprintendenze – dunque, la tutela – a colpi di sortite poco felici, decreti legge e inni alla monetizzazione (traduzione di “valorizzazione” nel gergo del suo Governo). Ma Matteo Renzi ha utilizzato il potere anche per creare mediaticamente il suo alter ego ‘cattivo’: Matteo Salvini, imposto al pubblico a qualunque ora del giorno per far passare, sottile, il messaggio “Se non volete me, vi tocca questo qui!”. Durante il suo mandato ha anche cercato di unire la propria figura a quella dei “vincenti” – ve lo ricordate da Obama con tutte le glorie italiane? –, dimenticando che la retorica del “vincente” contrapposto al “perdente” è quanto di più lontano dal pensiero di solidarietà sociale proprio della sinistra, innescando terrificanti meccanismi di competizione, soprattutto tra chi ha meno, e emulazione. Se sei un vincente vieni con me in America! Altrimenti sei come tutti, lontano dai riflettori, inesistente. Dimenticato. Perdente.
Chiunque si opponesse a questa narrazione – o storytelling, termine entrato in voga – era tacciato, con atteggiamento da bullo, di essere un gufo. Frattanto il patrimonio ha subito duri colpi e perdite incredibili, mentre il suo Ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, twittava felice ogni primo lunedì del mese per i numeri della Domenica al Museo.
A un certo punto, però, nella costruzione della sua figura di lavoratore instancabile – camicia bianca sempre rimboccata – e compagnone da gara di barzellette, qualcosa si è rotto. Dopo anni di politiche impopolari, di tentativi di forzare la carta costituzionale, il PD è franato sotto il peso dell’arroganza del suo leader. Di contro, l’alter ego ‘cattivo’ ha preso piede, potendo contare sull’appoggio di un partito di improvvisati che gli sta lasciando mano libera praticamente su tutte le questioni vitali per lo Stato. Un Governo, quello del cambiamento, che si sta caratterizzando per il tentativo di mascherare l’incapacità con la brutalità delle politiche sull’immigrazione.
Quale migliore mossa, in una fase di grande confusione a sinistra – e, soprattutto, di difficile gestione del PD – e sentimenti brutali diffusi, di proporsi, nel palinsesto delle TV di Berlusconi (per lasciare la porta socchiusa ai delusi dalla deriva salviniana del centro-destra) come il cantore della ‘bellezza’?
Siamo incastrati in una situazione ridotta a una questione di polarità: vincente/perdente, bello/brutto, buono/cattivo in un’epoca di grande complessità e miriadi di sfumature diverse. Ma, soprattutto, siamo dinanzi a una realtà più pericolosa: quella per cui la battaglia politica si gioca su terreni che non sono più quelli dell’analisi, dell’approfondimento e dello studio, ma del consenso mediatico, dell’approssimazione, della superficialità. Con conseguente ricaduta sulla percezione del sapere e sul ruolo dei suoi organi istituzionali: la scuola su tutti.
Che importa se Renzi non è uno storico dell’arte e parla comunque di storia dell’arte? A cosa servono, oggi, il sapere, la competenza, gli anni di studio se basta il megafono giusto a far arrivare qualunque tipo di messaggio? Viene dunque dichiarato che le forze in campo oggi si giocano la partita sul piano di una comunicazione sterile prima che su quello del sapere di cosa stanno parlando (nella fattispecie, il futuro del Paese).
Renzi, mettendosi a parlare di storia dell’arte, ha deciso che il pubblico può fare a meno della qualità nella divulgazione perché, in realtà, il suo messaggio non è diretto ai telespettatori (se non nella parte – grillina – in cui rende palese che tutti possono occuparsi di tutto indistintamente) ma ai suoi avversari politici. E la scelta dello stralcio da mandare in circolo come trailer della trasmissione è lì a dirlo.
Con un impaccio un po’ forzato, Matteo Renzi racconta il Tondo Doni, sottolineando come Michelangelo avesse un bel caratterino, tipico di tanti fiorentini (e qui ammicca). Renzi dice queste cose ed è davanti al Tondo Doni. Non dinanzi al dipinto, a illustrarlo. Proprio davanti. Il tondo, sullo sfondo, gli fa da aureola mentre racconta che quello del Buonarroti “era un caratterino mica tanto facile, come molti fiorentini”, caricando l’accento in modo da istituire un parallelo tra lui e l’artista forse più grande di tutti i tempi, tra il suo carattere ‘da fiorentino’ e quello di Michelangelo, tra la sua storia e quella del maestro. Dinanzi alla trattativa con il committente, Michelangelo pretende il doppio del prezzo per il tondo.
“E il povero Doni […] fu costretto a pagare tutto, a pagare sull’unghia, a pagare fino all’ultimo fiorino!”
Martina e il PD sono avvisati. Salvini – secondo lui – anche. E, chissà… forse anche Firenze.
StecaS