Inizia nel segno di Enrico Berlinguer la seconda edizione di “Liberi Libri“, la rassegna letteraria curata dal circolo PRC “Peppino Impastato” di Taranto. Domani, venerdì 27 giugno, alle 18:30, in piazza Immacolata, sarà presentato l’ultimo lavoro di Guido Liguori dedicato al pensiero politico dello storico segretario del PCI: Berlinguer rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico (edito da Carocci). Con l’autore ne discuteranno Pinuccio Stea, redattore di un ciclo di opere sulla storia politica della Taranto repubblicana e già dirigente del PCI, e la neo-parlamentare europea de L’Altra Europa con Tsipras, Eleonora Forenza, a sua volta ricercatrice nel campo del pensiero politico. Al prof. Liguori, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria e presidente della International Gramsci Society – Italia, abbiamo rivolto alcune domande sul suo libro e sull’attualità del pensiero di Berlinguer a trent’anni esatti dalla sua scomparsa.
“Berlinguer rivoluzionario” sembra quasi una provocazione. Nel senso comune infatti il segretario del PCI è identificato con la politica del compromesso storico e con il sostegno ai governi di “solidarietà nazionale”. Un Berlinguer dunque “moderato”. Perché allora quel titolo?
Gramsci insegna che vi sono molti sensi comuni. Io ritengo che nel senso comune della gran parte degli italiani, specie di quelle componenti di “popolo” che hanno vissuto gli anni di Berlinguer, vi sia un ricordo molto positivo del segretario generale del Pci, il quale è stato senza dubbio il politico italiano più popolare della seconda metà del Novecento. È dalla acquisizione di questo dato che dovrebbero ripartire i comunisti: vi è stato un comunista italiano che ha lasciato in anni non lontanissimi un profondo segno positivo nello stesso immaginario, nel mondo simbolico. Lo vogliamo regalare al nemico di classe? O a chi oggi lo riduce a “una brava persona”? Per quanto riguarda la sua politica negli anni Settanta, bisogna distinguere nettamente “compromesso storico” e “solidarietà nazionale”. Nel mio Berlinguer rivoluzionario avanzo anche molte riserve storiche sulla proposta di compromesso storico, pur riconoscendo la validità dei motivi che spinsero non solo Berlinguer ma tutto il Pci ad avanzarla. Molto più problematica la stagione della “solidarietà nazionale”, dove il Partito Comunista fu “giocato” dalla Dc e perse molti voti. A partire dal 1979, però, inizia la fase del “secondo Berlinguer”, che non è solo la “questione morale”, ma il ritorno alla rappresentanza di classe, la proposta di riforma del Pci e della politica, l’apertura ai movimenti (femminista, pacifista, ecologista). È questa ultima stagione berlingueriana a essere la più viva e anche quella più di sinistra, anche se bisogna riconoscere sempre a Berlinguer il “chiodo fisso” che ha guidato sempre la sua azione: come avanzare verso il socialismo nel mondo della guerra fredda, del fascismo presente nel cuore dell’Europa, della “strategia della tensione”, ecc. Le risposte furono diverse perché con realismo si valutavano i rapporti di forza. Ma la domanda di fondo era unica, e per nulla moderata.
La prima parte del libro è dedicata alla politica internazionale di Berlinguer. Il segretario del PCI ebbe momenti di confronto anche molto aspri con la dirigenza dell’URSS. Quali elementi caratterizzarono la sua ricerca di una “via italiana al socialismo” e in cosa essa differiva dal modello sovietico?
Berlinguer viene fatto segretario all’indomani dell’invasione di Praga proprio perché fin dagli anni Cinquanta e dai primi anni Sessanta aveva maturato un giudizio critico sul socialismo autoritario dell’Urss. Egli era il frutto più maturo del partito di Gramsci, che col concetto di egemonia aveva aperto la strada a una valutazione positiva della ricerca del consenso; e di Togliatti, che dal 1944 in poi aveva disegnato una “via italiana al socialismo” basata sulla coniugazione di democrazia e socialismo. Berlinguer va oltre: da una parte va a Mosca a dire persino che la democrazia è un “valore universale” e che dunque senza democrazia neanche si ha vero socialismo. Dall’altra afferma che le forme della democrazia sono molte, che non esiste solo la democrazia parlamentare, che ciò che conta – al di là delle forme della rappresentanza – è il rispetto di alcuni principi: libertà di parola, di organizzazione, di cultura, libertà sindacale, di culto, ecc.È chiaro che questi requisiti erano lontani dalla realtà sovietica e degli altri paesi nati sul modello della rivoluzione d’Ottobre. Che Berlinguer non rinnega mai, ma storicizza e, gramscianamente, restringe in un tempo storico non più attuale.
Nel libro si parla di un “primo” e di un “secondo” Berlinguer, individuando come soluzione di continuità la rottura della solidarietà nazionale, e attribuendo un valore sostanzialmente positivo agli ultimi anni di segreteria. E’ un’interpretazione che contrasta con i giudizi prevalenti, che tendono a concentrare l’attenzione sul Berlinguer degli anni ’70, liquidando in maniera talvolta sprezzante la parte conclusiva della sua parabola politica e umana (tacciata quando di “vaghezza” quando di “conservatorismo”). In cosa differiscono i due Berlinguer e quali furono le principali intuizioni del “secondo”?
Il “secondo Berlinguer” è rimasto a lungo “nascosto” perché egli fu negli ultimi cinque anni della sua vita spesso in minoranza nello stesso gruppo dirigente. Non solo rispetto alla destra che poi si sarebbe detta migliorista o riformista, ma anche rispetto a dirigenti che erano stati in passato “berlingueriani”. Se si leggono i verbali della Direzione del Pci in questi anni si vede che più volte Berlinguer dice: non sono qui perché l’ho voluto io. Mi dimetto e andiamo a congresso, ognuno con le sue tesi. Ma nessuno raccolse la sfida: tutti sapevano che la popolarità di Berlinguer nel partito era cresciuta a dismisura negli ultimi anni, in modo inversamente proporzionale al suo isolamento nel gruppo dirigente. Questo Berlinguer così popolare era decisamente di sinistra: quello che andò alla Fiat a dire che stava con gli operai qualunque decisione avessero preso durante la lotta del settembre 1980; che lanciò il partito in una dura lotta contro i missili americani a Comiso; che invocò una azione di tutti i paesi più avanzati per aiutare i popoli del Terzo mondo; che condannò la ripresa dell’espansionismo sovietico nella seconda metà degli anni settanta. Questo Berlinguer era amato dalla gente e dai comunisti e avrebbe vinto qualsiasi congresso a tesi contrapposte. Del resto il Pci recuperò elettoralmente già nel 1983, ebbe un grande successo anche emotivo (ma perché Berlinguer, questo Berlinguer, era molto amato) nel 1984, dopo la scomparsa del segretario. E con Berlinguer (“il trombettiere che suonava la carica”, lo definì “il Manifesto”) credo che avrebbe vinto il decisivo referendum sulla scala mobile contro Craxi: la storia d’Italia sarebbe stata diversa.
Un altro passaggio controverso è quello su “austerità” e “questione morale”, termini ancora attuali ma in un senso molto diverso da quello che attribuì loro il segretario comunista. Berlinguer alludeva in entrambi i casi alla costruzione di un nuovo modello di sviluppo, mentre col tempo si è imposta la mera forma esteriore di quelle espressioni (in un caso i “sacrifici”, nell’altro la “legalità”). Quanto ha inciso su questo “fraintendimento” la rotta intrapresa dai suoi successori?
Berlinguer nel 1977 propose l’austerità non come si fa oggi, ma al contrario dicendo che non era giusto parlare di “sacrifici” (come facevano Lama e Amendola), ma bisognava proporre tutto un diverso modello di società, meno consumistica, meno individualistica, meno sperperona. Fu del tutto frainteso e sbeffeggiato, grazie al sindacato moderato guidato da Lama, agli intellettuali e ai mass media craxiani e a chi, nel movimento degli studenti, combatteva da sempre il Pci. Resta il fatto che oggi Latouche indica in quella impostazione berlingueriana persino un primo abbozzo di politica della decrescita. Sulla “questione morale” Berlinguer non indicava solo il fatto che i delinquenti e i ladri andasse perseguiti, ma soprattutto che i comunisti erano “diversi” perché volevano cambiare la società. Tanto che disse a Minoli, in tv: non ho fatto la scelta di fare politica, ma quella di combattere per i miei ideali comunisti… Con queste parole, Berlinguer parlava anche al suo partito, che a partire dalla “solidarietà nazionale” stava prendendo altre strade e non aveva sopportato la correzione di rotta e l’autocritica fatta da Berlinguer a partire dal 1979-1980.
Come ogni ricorrenza, anche il trentennale della morte di Enrico Berlinguer è stato usato in maniera strumentale rispetto alle esigenze politiche del presente (c’è persino chi si è azzardato ad accostare il compromesso storico alle correnti “larghe intese”). Qual è il modo più onesto per ricordare e provare ad attualizzare il pensiero e l’opera del segretario del PCI?
Quest’anno, a differenza dei passati decennali, non ha prevalso il rifiuto (Dimenticare Berlinguer, era il titolo di un libretto di Miriam Mafai) o la rimozione. Non c’è più chi va in giro dicendo che aveva ragione Craxi, il “moderno”, che ci ha lasciato in eredità il ventennio berlusconiano. Vi è però un uso “sterilizzato” di Berlinguer: brava persona, onesto, ecc. ma – ecco l’aspetto che resta in ombra – quasi mai ricordato come convintamente comunista. Berlinguer invece ha ribadito fino all’ultimo che egli, pur staccatosi dal socialismo autoritario sovietico, vedeva ugualmente il fallimento delle socialdemocrazie, le difficoltà del welfare di fronte all’offensiva neoliberista. Fino in fondo Berlinguer ha continuato a combattere per i suoi ideali comunisti: si può ovviamente discutere sulle sue scelte ma non si può negare questo fatto. Tale riconoscimento è il modo più onesto per ricordarlo. Non si è detto che si debba rimanere fermi alle sue idee. Ma esse non vanno rimosse o mistificate. Se si leggeranno attentamente i suoi scritti, quelli degli ultimi anni ma non solo, ci si accorgerà che molti dei suoi “pensieri lunghi” sono “idee forti” che hanno ancora oggi molti da dire e insegnare.