In vista della manifestazione della Cgil di sabato 25 ottobre abbiamo voluto indagare le condizioni di lavoro nella provincia di Taranto e il rapporto fra sindacato e lavoratori. Ne sono usciti tre reportage su altrettanti ambiti produttivi. Iniziamo oggi con l’agricoltura.
I braccianti esistono ancora? A giudicare dalla rappresentazione che dell’agricoltura danno i principali mezzi di informazione si direbbe proprio di no. Certo, ci sono gli agricoltori (o coltivatori): talvolta ospiti di trasmissioni televisive nazionali e locali in cui si esalta la bontà dei prodotti della nostra terra, talaltra protagonisti di forme più o meno variopinte di protesta. Ma dei braccianti neanche l’ombra. Rimane il ricordo di Di Vittorio – “quello che insegnò ai cafoni a non togliersi il cappello davanti ai signori” -, delle occupazioni delle terre, degli affollati comizi nelle piazze dei borghi rurali. Ma è roba del passato, buona per dare un po’ di colore ai discorsi sempre più sbiaditi di qualche dirigente sindacale, a scrivere la sceneggiatura dell’ennesima fiction, o a commuovere gli animi smarriti della gente di sinistra. Ma cosa vuoi che esistano ancora i braccianti (etimologicamente “quelli che non hanno altro che le loro braccia”) nel 2014, all’epoca di internet, dell’economia della conoscenza, dell’impresa fai-da-te?
Eppure, nella sola provincia di Taranto, sono 29 mila i soli braccianti censiti. Ma è un dato che considera solo i soggetti che nel 2013 hanno svolto almeno 51 giornate di lavoro regolarmente retribuito; in realtà, quelli che quotidianamente vendono le proprie “braccia” nelle campagne joniche sono molti di più. Perché l’agricoltura è il dominio del lavoro occasionale, spesso “a nero”; in agricoltura i rapporti fra “padrone” e lavoratore sono improntati alla massima precarietà.
Lo sa bene Vito Vetrano, giovane bracciante, militante politico e sindacale. Vito ha la mia età, ma la campagna lo ha già segnato, nel corpo («ho già un’ernia inguinale”, mi confida) e nello spirito. «Quando lavori in campagna, la campagna ti entra dentro e non ti lascia più. Dopo le mie otto ore di lavoro, torno a casa e ho solo voglia di pensare ad altro. Non è che uno non voglia trovarsi un altro lavoro: la volontà ci sarebbe pure; è che proprio non hai la forza di guardarti intorno, di mandare curriculum. E intanto il tempo passa, e tu rimani attaccato alla campagna.”
Ma Vito l’alienazione del suo lavoro non l’ha mai accettata, e col tempo è diventato un punto di riferimento per i suoi compagni nei campi e in paese. Alle ultime elezioni, da candidato consigliere comunale a Palagianello (6.500 elettori in tutto), ha preso più di 500 voti – voti “sudati”, perché Vito non è l’avvocato o il farmacista. Ogni volta parlare con lui è come aprire una porta che dà su un mondo del quale si sa poco o nulla; e lui ha la pazienza di prenderti per mano e spiegarti le cose, quelle vicine e quelle lontane. «Vedi – mi dice – oggi il bracciante non è quello di quarant’anni fa. Allora le condizioni in campagna erano anche peggiori di adesso, ma il bracciante aveva il desiderio della libertà, che lo spingeva a sacrificarsi e a lottare. E la libertà era il possesso della terra, che doveva servire a lui e alla sua famiglia per campare dignitosamente. Con questo spirito i braccianti occuparono le terre anche qui da noi. L’ultima ondata è stata nel 1975, quando si ottenne la redistribuzione del feudo del marchese Giovinazzi.» E oggi? «Oggi il bracciante è un lavoratore come tanti altri: torna a casa, va al bar e quello che sogna è il Grande Fratello, la macchina più potente… E’ anche lui nell’ottica del consumismo. Senza che si possa permettere grandi consumi, perché il salario quello è. La condizione più pesante poi la sopportano le donne, che praticamente non hanno vita sociale, perché dopo il lavoro devono badare alla casa e ai figli: per loro l’alienazione è totale.»
A proposito di salario, denuncia Vito, la situazione è paradossale. “Una norma inserita nella finanziaria del 2008 stabilisce che, se il padrone retribuisce il bracciante al livello fissato dai minimi sindacali (circa 44 Euro a giornata) può pagare solo 8 Euro di contributi.» Questo sistema è stato introdotto per contrastare il lavoro nero, ma ha prodotto l’effetto contrario. «Di fatto – continua Vito – le aziende scrivono 44 Euro in busta paga, ma danno meno, a volte molto meno, al lavoratore, che così ci rimette perché va a pagare di più di tasse. E lo fanno non solo le piccole aziende, che fanno fatica a stare sul mercato, ma anche le realtà più importanti.» D’altra parte, il salario realmente percepito in questa fase viene spinto al ribasso sia dalla disoccupazione crescente sia dall’uso che le aziende fanno di lavoratori extracomunitari. «In certi casi si assiste a fenomeni inquietanti: le piccole aziende fallite vengono acquistate da aziende più grandi, che licenziano immediatamente tutti i lavoratori e assumono manodopera straniera a bassissimo costo (a volte anche solo 10 Euro a giornata).» Le conseguenze di questa tendenza sui rapporti fra lavoratori sono devastanti. «Pensa che dalle mie parti ormai spopola Salvini. Fino a qualche anno fa riuscivi anche a spiegare ai compagni, soprattutto a quelli più anziani, che il lavoratore straniero non è il tuo nemico, ma il tuo alleato; oggi non ti danno retta. E i contrasti sono ancora più forti fra gli stranieri stessi: per esempio, l’altro giorno il mio collega polacco si lamentava dei soldi che lo Stato dà ai profughi. Ormai la guerra fra poveri sta dilagando da ogni lato.»
A rendere ancora più precaria la condizione dei braccianti c’è l’assenza di un sistema universalistico di ammortizzatori sociali. «Noi non abbiamo né cassa integrazione né mobilità: ricevi un sussidio di disoccupazione se hai fatto almeno 51 giornate di lavoro in un anno. Ma se magari capita la stagione sfavorevole e non riesci a coprire quel periodo, rimani senza niente.» Le cose non vanno meglio sul fronte del riconoscimento delle malattie professionali. «L’altro giorno ho letto il comunicato del presidente di Confagricoltura Taranto che annunciava la costituzione di parte civile della sua organizzazione nel processo contro l’Ilva. Bene, bravi – commenta Vito – ma vogliamo parlare dell’avvelenamento che i braccianti subiscono ogni giorno sul posto di lavoro? Nitrati e fosfati, che prima venivano usati per le produzioni belliche, oggi vengono tranquillamente adoperati in campagna. Le conseguenze sulla salute dei lavoratori sono devastanti: tumori e, per le donne, abbassamento dell’utero e conseguente infertilità. Per non parlare delle ernie e del tunnel carpale, che colpiscono il 90% dei braccianti, perché sono la conseguenza inevitabile dei movimenti che devi fare sul lavoro. E poi ci stanno reumatismi e artrosi: chi lavora agli ortaggi, per esempio, è immerso nell’acqua quasi per l’intera giornata; e le ossa col tempo gli si corrodono. Ecco, solo in pochissimi casi l’Inail riconosce a questi problemi lo status di malattie professionali. In ogni modo, a 45/50 anni un bracciante fisicamente è distrutto.»
E a fronte di tutto questo che fa il sindacato? «Il sindacato – spiega Vito – anzitutto non c’è nei luoghi di lavoro. Prima di tutto, perché in molti casi si tratta di piccole e piccolissime aziende, dove è oggettivamente difficile sindacalizzare le persone, per cui se c’è un compagno (come me) magari si riesce a fare qualcosa, almeno a spiegare ai lavoratori quali sono i loro diritti fondamentali, riconosciuti dalla legge. Ma è una rarità. I veri problemi del sindacato però sono due: la mancata volontà di entrare nei luoghi di lavoro – anche di forza, se il padrone non lo consente – e l’assenza dai paesi. Parlo per l’organizzazione che conosco meglio, la Cgil. Le Camere del Lavoro ormai si attivano solo quando ci sono da fare le domande per il sussidio di disoccupazione, per cui lavorano quasi esclusivamente come patronati. Io proposi di mantenerle aperte come sportello per tutti i problemi dei lavoratori, ma manca la volontà politica. E così è il bar il punto dove i braccianti si scambiano informazioni e pareri, e quello che ne sa di più spiega agli altri come stanno le cose .» Ma il problema dei rapporti fra sindacato e lavoratori, nota Vito, riguarda un nodo di fondo. «Il sindacato non lo può fare chi non ha mai lavorato e non ha mai vissuto la condizione dei lavoratori, perché non è credibile agli occhi degli stessi lavoratori. La prima cosa che un bracciante chiede al dirigente sindacale di turno quando questo riesce a organizzare un’assemblea è “sei mai andato fuori?”; ovviamente il sindacalista rimane interdetto, e il lavoratore lo manda a quel paese. Ma il discorso riguarda anche la politica: hai mai sentito un dirigente politico parlare in televisione di braccianti? Di agricoltura o di agricoltori, forse; ma di braccianti mai! Anche noi, a sinistra, abbiamo completamente cancellato questa categoria. Come se la terra si lavorasse a sola, o la lavorassero soltanto i proprietari. C’è tantissimo da recuperare, e bisogna farlo in fretta altrimenti i lavoratori rimarranno sempre più soli e alienati, e cadranno nel razzismo, nel leghismo.»
Ma da dove cominciare? Vito è ben consapevole della complessità della situazione. «Una volta c’era il padrone, che era il signore, che ti bastonava e ti frustava, e si godeva i frutti del tuo lavoro; e infatti la nostra parola d’ordine era “la terra a chi la lavora”. Ma oggi capita spesso che lo stesso proprietario lavori al tuo fianco, e fatichi come te ad arrivare a fine mese. Oggi il nemico non ha più un volto e un nome precisi: è il mercato, la globalizzazione. Perché l’azienda per cui lavori dev’essere competitiva coi costi che hanno in Marocco o in Tunisia, altrimenti chiude e tu vai a casa. Questo è il problema che il sindacato e le forze politiche devono porsi: costruire un’alleanza fra piccoli agricoltori e braccianti, e proporre politiche di tutela di questi gruppi di fronte alla grande distribuzione. E puntare all’Europa, perché le politiche agricole comunitarie condannano proprio quelle categorie, soprattutto se poi si occupano di prodotti mediterranei.»
Finita la conversazione, con Vito ci diamo appuntamento a sabato, alla manifestazione della Cgil. «Sono riuscito a convincere altri tre colleghi a venire con me», mi dice. Ma non sembra soddisfatto. Forse si poteva fare di più. No, non certo lui, che la sua “missione” – come ama dire parlando della militanza sindacale e politica – la compie ogni giorno. Ma chi avrebbe ben più potenti mezzi per curare gli interessi della gente che lavora. C’è tanto da fare, e intanto il tempo sembra aver preso un’accelerazione fortissima, quasi un vortice che sta travolgendo quanto ancora resta della “civiltà del lavoro”. Il sindacato (in particolare la Cgil) si trova di fronte a una scelta cruciale: se adattarsi alla corrente o ergersi ad argine contro tutto questo.