Scrivete con occhi pittori, orecchie musiciste, piedi ballerini. Siate gli araldi della verità con penna e torcia. Scrivete con lingue di fuoco. Non permettete alla penna di bandirvi da voi stesse. Non permettete che l’inchiostro si coaguli nel pennino. Non permettete al censore di spegnere la scintilla, ai bavagli di soffocare la vostra voce. Mettete la vostra merda nero su bianco.
Gloria Anzaldùa
Il fondamentale substrato di violenza fisica, psicologica e verbale su cui è purtroppo fondata la società moderna si manifesta soprattutto nel rapporto tra diverse etnie e nel confronto tra uomini e donne. Nel mondo occidentale dei maschi, dopo una lunga stagione di rivendicazione ben lungi dall’essere chiusa, la donna ha acquisito qualche arma per difendersi e ha imparato ad utilizzarla molto bene diventando talvolta, forse come forma di difesa, anche più violenta dell’uomo; non così nel contesto mediorientale e nordafricano dove, stando a quanto si scriverà sotto, le Primavere Arabe (nelle quali le donne sono state protagoniste) non hanno sortito alcun effetto.
Perché ci odiano, edito da Einaudi Stile Libero Extra nel 2015, è un libro di Mona Eltahawy, editorialista del New York Time, commentatrice e scrittrice pluripremiata, opinionista di BBC, CNN, Al -Jazeera, che vive tra il Cairo e New York. Il libro è una testimonianza dura sulla triade «sesso, morte e religione, che costituisce il cuore pulsante della misoginia in Medio Oriente». E’ il libro politico più “forte” che il sottoscritto abbia mai letto – cos’è il controllo completo e continuo sul corpo delle donne se non un messaggio politico/culturale preciso e totalizzante? – ed è un atto di accusa nei confronti di tutte le discriminazione sessuali (anche quelle presenti attualmente negli USA), oltre ad essere un monito per una sinistra occidentale – di cui la scrittrice è convinta militante – che, forse per il timore di fornire involontari aiuti a giustificazioni interventiste in Medioriente in epoca di pulsioni neocolonialiste, non riesce ad esprimere un giudizio laico sull’argomento. E’ un libro che potrebbe generare sentimenti di repulsione nei confronti dei tanti mediorientali e nordafricani che sbarcano in Italia per cercare una vita migliore: a tal proposito è meglio chiarire che la stessa autrice attribuisce gran parte di questi comportamenti ad un’educazione repressiva in tema di educazione sessuale.
Già il suo incipit è un vero e proprio pugno nello stomaco: è la citazione di Vista del minareto in lontananza della defunta autrice egiziana Alifa Rifaat, nel frangente in cui l’uomo è sopra la “sua” moglie tutto concentrato nel prendere il proprio piacere mentre lei, donna di mezza età frustrata sessualmente, si chiede, fissando la ragnatela sul soffitto, per quale motivo il marito si rifiuta di prolungare il rapporto abbastanza a lungo per darle piacere. Probabilmente vuole negarle di proposito questo piacere perché lei è una “sporca” donna, talmente impura da meritare la mutilazione genitale da bambina. Ad amplesso concluso la donna realizza che suo marito, sposato perché scelto dalla sua famiglia per lei, è morto nel letto e la sua reazione è tornare nel soggiorno per versarsi il caffè, stupita della propria calma. Indifferenza e annullamento di un’esistenza, appunto.
L’autrice si interroga e si risponde: «Gli uomini ci odiano perché siamo libere, come recita lo stanco cliché americano post 11 Settembre? No, noi non siamo libere proprio perché gli uomini ci odiano». A tal punto che, come recita un motto saudita spesso applicato alla lettera, le donne possono “uscire” solo tre volte, «dal ventre delle madri, dal giogo dei genitori per passare sotto quello del marito e poi da casa per andare al cimitero».
La Eltahawy è un’egiziana di fede musulmana nata nel 1967 e trasferitasi giovanissima con i genitori medici in Gran Bretagna per poi essere catapultata a 15 anni in Arabia Saudita proprio perché entrambi i genitori avevano ottenuto un qualificatissimo posto di lavoro in uno degli ospedali universitari locali. L’acredine con cui l’autrice parla del suo mondo potrebbe far pensare quasi alla reazione piccata della quindicenne che, abituata allo scintillante stile di vita nella Londra degli anni Ottanta, sia riluttante ad abituarsi al nuovo stile di vita. Non è così: la Eltahawy scrive con l’acrimonia ed il rimpianto della donna alla quale è stata rubata gran parte della giovinezza e con la documentata precisione della giornalista che, carte alla mano e fino a prova contraria, può sostenere ciò che afferma, è cioè che le violenze sulle donne sono in continuo aumento proprio in questi ultimi anni.
«Fatemi un nome di un paese arabo e vi reciterò una litania contro le donne di quel paese in quel paese, abusi alimentati da un cocktail velenoso di cultura e religione che in pochi sembrano disposti a non bere, nel timore di risultare offensivi o blasfemi». Si sarebbe tentati di dire che, in linea generale, il maschilismo impera dappertutto. Il libro, però, mantiene le premesse/promesse: non c’è una sola pagina in cui non ci sia un riferimento ad abusi documentati talvolta raccapriccianti sulle donne che, certo, non traggono ispirazione dalle regole del Corano e dai precetti di Maometto – le cui mogli erano infermiere e cavallerizze, donne attive e libere non certo relegate in casa.
Il Global Gender Gap Report, un indicatore compilato dal World Economic Forum, non include un solo paese arabo nei primi cento stati: ciò significa che esiste una disparità enorme di trattamento tra uomini e donne quanto a possibilità di accesso al mondo del lavoro, retribuzioni, salute (aspettativa di vita) e impegno politico. E non parliamo solo di Arabia Saudita e Yemen – paesi notoriamente integralisti dal punto di vista religioso – ma anche del Marocco, per esempio, il cui diritto di famiglia è spesso sbandierato come “progressista”, ma che è alla posizione 129 su 136 paesi della classifica del 2013. Nel paese in cui la scrittrice è “diventata femminista per trauma”, l’Arabia Saudita, le donne possono uscire solo se accompagnate da un tutore – all’occorrenza anche il figlio minorenne – e non possono guidare; l’Egitto è ancora oggi il paese in cui il marito può per legge picchiare la moglie “con buone intenzioni” senza essere penalmente responsabile (ma può rifondere i genitori della sposa dei danni, come se si trattasse di un oggetto acquistato dal legittimo proprietario al momento del matrimonio). Sempre l’Egitto è il paese in cui le donne, durante le agitazioni di piazza Tahrir , dovevano guardarsi dalle cariche della polizia – in una di queste cariche la giornalista ha subito fratture multiple alle braccia ed è stata stuprata – e, mentre scappavano, dovevano schivare anche i palpeggiamenti dei compagni di protesta («Vorrei sapere cosa passa nelle teste dei nostri uomini quando, mentre scappiamo insieme da cariche potenzialmente letali, ci toccano il culo»).
Il velo
«Quando si parla delle cosiddette restrizioni islamiche sull’abbigliamento femminile, le donne non sono mai semplicemente donne» ma oggetti preziosi da coprire e nascondere; sotto il velo ci sono persone che, molto spesso, hanno modificato l’immagine che le donne hanno di se stesse. «Siamo qualcosa in più del velo che ci copre?». Alla domanda: “ma quanto è diffuso il velo?” l’Institute for Social Research del Michigan ha fornito una risposta: circa il 90% delle donne egiziane indossano una sorta di niqab di qualche tipo che copra viso o capelli e sembra ormai accertato che il fenomeno sia più diffuso ora che in qualsiasi altro momento a partire dai primi del Novecento, quando Huda Shaarewi, precisamente nel 1923, si tolse clamorosamente l’hijab inaugurando il movimento femminista egiziano. «Se un poliziotto, cioè lo Stato, a guardia della Ka-ba alla Mecca [fatto realmente accaduto alla scrittrice nel luogo più sacro dell’Islam, n.d.r.] mi palpa il seno sotto il burqa che possibilità ho di lamentarmene ed ottenere che si faccia qualcosa al riguardo?» Ecco quindi che per la Elthaawy il velo – che diventa protezione dietro la quale difendersi fisicamente e psicologicamente – rappresenta il simbolo di misoginia e strumento politico di dominio dell’uomo sulla donna, arma di distruzione di fisici e coscienze dalla quale liberarsi attraverso rivendicazioni femminili.
Le mani sulla donna
«I livelli di molestie sessuali nei luoghi pubblici sono saliti alle stelle in tutto il mondo arabo e occorre chiedersi il perché. Una delle risposte possibili – sempre accolta dai fischi e dai dinieghi dei conservatori – è che più le donne si coprono più gli uomini si sentono autorizzati». Nella cultura della “purezza” in Medio Oriente ed in Nord Africa, la tutela dalle violenze sessuali è una responsabilità a carico di donne e ragazze: sono loro a dover evitare il contatto con gli uomini fuori di casa. Un avvocato donna ha condiviso con l’autrice un episodio in merito ad un episodio di stupro in Egitto: «La madre dice alla figlia [stuprata] di coprirsi così nessuno la tormenterà. La donna dice alla nipote, che è una femmina, che non deve reagire ma tenere la bocca chiusa ed incassare. Il padre dice alla figlia di non parlare con nessuno perché, se lo farà, quelli picchieranno suo fratello». Dichiara nel 2014 Shahrazad Magrabi, femminista libica: «Stanno facendo danni gravi, usando L’Islam come un’arma, come un utensile. Il messaggio è che, se sei una donna ed esci di casa, finirai all’inferno. Quello che mi preoccupa è il loro modo di far intendere alla gente ciò che è Haram, cioè peccato; si vedono bambine di sei anni con il velo e le insegnanti con scolaresche di bambini da sei anni in su non possono lavorare senza velo. Io sono libica. Non me ne sono mai andata. Che diavolo va dicendo questa gente?».
Questa cultura della purezza conduce gli uomini e le donne ad attribuire a queste ultime le colpe delle molestie che subiscono: ultimamente si è arrivati ad un punto tale che l’86,5% degli uomini sauditi attribuisce al “trucco troppo pesante delle donne” l’aumento del numero di molestie nel 2014 – e secondo il King Abdulaziz Center for National Dialogue di Riad la situazione continua a peggiorare – mentre, secondo un sondaggio di ECWR (Egyptian Center for Women’s Rights) il 62% dei maschi egiziani ha ammesso di molestare donne o di averle stuprate. Dallo stesso sondaggio è emerso che la maggior parte delle donne che ha subito violenze ha ammesso di aver nascosto il fatto per non rovinarsi la reputazione. L’agghiacciante domanda che, in merito a questi ed altri fatti documentati, si pone l’autrice è: «Nella speranza che gli uomini non ci sussurrino oscenità e che le loro mani rispettino i limiti fisici dei nostri corpi, siamo costrette a supplicare: “E se fossi tua madre, tua figlia, tua sorella?” Ed è questa l’umiliazione più grave: la donna non merita di potersi muovere nello spazio pubblico [una piazza, un pub, un’assemblea di popolo] senza essere identificata dal suo rapporto con un uomo?».
In questo quadro desolante non può mancare lo “stupro di Stato”, praticato regolarmente dai poliziotti egiziani nei confronti delle donne di Piazza Tahrir e istituzionalizzato da assurde leggi di Stato: oggi in Libia chi denuncia uno stupro rischia di finire in prigione perché autodenuncia una zina (fornicazione, adulterio), come è definito ogni rapporto coniugale e pre-matrimoniale; qui i medici del carcere praticano regolarmente il “test di verginità” ovvero, letteralmente, affondano le mani nelle loro intimità per verificare il reato……
Secondo il Marocco World News, i “test di verginità” in Marocco stanno aumentando e sono praticati soprattutto a donne senza velo che, semplicemente, camminano per strada o, a maggior ragione, a giovani ragazze che fanno un pic-nic, come successo a Constantine nel 2014. E’chiaro che il solo timore di subire un umiliante test di verginità rappresenta un potente strumento di repressione politica e psicologica: un test del genere è un violentissimo attacco alla libertà individuale; cosa c’entra la verginità con un qualsiasi reato o illecito? La scrittrice del libro, durante i moti del Cairo del 2011 (quindi quando già era una giornalista e femminista affermata), dopo essere stata brutalmente manganellata da 5 agenti in Mohammed Mohmoud Street per poi subire lo stupro di gruppo di prassi, si recò in ospedale con due braccia rotte e lì, senza alcuna manifestazione di comprensione da parte dell’infermiera (una donna!) le fu chiesto: «Come ha potuto permetterlo? Perché non ha opposto resistenza?» Come dire: “ti hanno stuprato per colpa tua”.
Il dio della verginità e i nemici in casa
Secondo l’Unicef 125 milioni di donne e bambine attualmente in vita in Medio Orirente hanno subito una MGF (mutilazione genitale femminile), sia essa una clitoridectomia, una escissione di clitoride e piccole labbra o un’infibulazione – restringimento dell’apertura vaginale per mezzo di una sorta di sigillo che si realizza tagliando e riposizionando le labbra interne ed esterne della vagina eliminando o meno il clitoride (!!!) – quest’ultima lascia alla donna esclusivamente la possibilità di urinare ed espellere il flusso mestruale. Chi pensa che si tratti di una pratica diffusa nei centri periferici del paese sbaglia: dal momento che la donna è un oggetto di tentazione per l’uomo, questa forma di barbarie (che riduce enormemente e definitivamente l’impulso sessuale femminile menomando a vita l’esistenza della persona) è tuttora suggerita, in barba alle leggi, anche da genitori e nonni della piccola donna da operare – si è operati quasi sempre in tenera età. Com’è possibile che, in famiglia, si possa acconsentire ad una simile forma di tortura perenne? «Le mamme e le nonne capiscono che, senza questa macelleria, le loro ragazze saranno considerate incontrollabili e inadatte al matrimonio. Quindi si acconsente ad amputarle perché un giorno siano complete. Che ironia: amputare per rendere intere!»
Nonostante gran parte delle donne islamiche arrivino caste e pure al matrimonio, le amorevoli cure che le attendono sono talvolta letali, ancora prima di uscire da casa: Lama Al- Ghamdi, ragazza saudita figlia di un religioso habitué di programmi televisivi, fu «bruciata con cavi elettrici e bastonata; le fu fracassato il cranio e le furono strappate le unghie; fu stuprata più volte e dappertutto». Morì in ospedale il 25 Dicembre 2011. Il padre, condannato inizialmente a 8 anni perché colpevole delle azioni descritte, ha scontato solo 3 mesi di carcere in base alla legge del blood money: questo signore ha comprato la vita della figlia pagando 250.000 Euro alla donna alla quale la figlia era la persona più cara, la madre, a sua volta impossibilitata a rifiutare questo scambio diritti-soldi perché povera e senza fonti di reddito.
Pochi sanno che, in Iraq, un uxoricida sconta tre anni di carcere al massimo, mentre in Libano un uxoricida, mentre la moglie era ancora agonizzante e viva per terra, ha comunicato telefonicamente alla suocera: «Vieni a vedere mentre uccido tuo figlia», piazzandosi poi con un fucile davanti all’uscio di casa fino a quando la moglie è spirata due ore più tardi; nel frattempo la polizia dichiarava di non poter intervenire poiché non poteva intromettersi in “questioni di famiglia”. Senza parlare delle decine di donne che si sono suicidate poiché stuprate da mariti che non hanno scelto. «Il Profeta non ha mai picchiato una donna e ha posto l’accento sull’amore e sul rispetto per il sesso femminile». «Quale Islam ritiene il matrimonio, o meglio lo stupro di bambine, un diritto? Di certo non il mio, né quello di molti altri musulmani», grida Mona Eltahawy, ricordando il caso di Rawan, la «bambina yemenita di otto anni morta per emorragia interna dopo che un uomo con il quintuplo dei suoi anni se l’era letteralmente scopata a sangue nella loro prima notte di nozze». «Quasi tutte le donne di Maometto erano più vecchie di lui tranne una, molto più giovane ma non bambina. Khadija aveva 15 anni più di lui, ma Khadija rappresenta il potere e l’autonomia che certi teologi disprezzano nelle donne. La sposa bambina è inerme, malleabile, priva di qualsiasi esperienza e capacità di sfidare l’autorità maschile».
A parere dell’autrice il controllo sui corpi delle donne agito in ogni momento della vita ed in ogni luogo deve, innanzitutto, essere combattuto dalle stesse vittime in casa loro, liberandosi di quel senso di soggezione psicologica di cui quasi tutte le donne islamiche sono vittime: «casa è dov’è il dolore e casa è dove dobbiamo cominciare a guarire». Ma già solo togliere il velo, pure per una femminista attivista, ha comportato portare con sé un senso di colpa durato 20 anni. «Non mi ero liberata della mia educazione. Della mia tradizione». E’ a questo punto che Mona Eltahawy critica tutti i compagni maschi “di sinistra”, affermando che i liberali occidentali che condannano giustamente l’imperialismo sono ciechi di fronte all’imperialismo culturale che esercitano quando zittiscono le critiche alla misoginia e «si comportano come se volessero salvare da me la mia cultura e la mia fede, scordandosi che loro sono immuni dalle violazioni di cui parlo io». La critica colpisce duramente anche gli uomini egiziani di Piazza Tahrir, così politicamente perfetti nel contrastare il regime, così deludenti nel praticare dentro se stessi una rivoluzione sociale e sessuale. «Tanti compagni tanto radicali nei caffè, nei sindacati e perfino nei gruppi, sono soliti lasciare fuori di casa il ruolo di amanti della liberazione femminile e si comportano con la propria compagna, una volta dentro casa, come volgari mariti».