Il convegno del 7 novembre su “Ambiente Salute Lavoro”, promosso dalla Curia di Taranto, non è stato solo occasione di passerella per ministri davanti a una platea selezionatissima (i “comuni mortali” hanno dovuto accontentarsi dello streaming). Dal dibattito della mattinata è emerso il dilemma fondamentale di fronte al quale si trova la questione ILVA al momento. Da una parte, ci sono le prescrizioni AIA che il governo ha consegnato all’attuale struttura commissariale come mandato imperativo da realizzare nel corso dei prossimi tre anni; dall’altra, c’è la prospettiva di una radicale trasformazione del processo produttivo emersa nelle ultime settimane.
Sul primo versante si è intrattenuto Luca Di Nardo, giovane ingegnere dello staff del subcommissario Edo Ronchi. L’attuazione dell’AIA consentirà ad ILVA di adottare soluzioni più avanzate di quelle applicate dalla Thyssen Krupp nella sua unità di Duisburg, permettendo al siderurgico jonico di conseguire le stesse performance ambientali che il sito renano realizza da ormai dieci anni.
L’altro corno del dilemma è emerso nelle parole del prof. Genon, uno dei tre redattori del Piano di intervento in ambito ambientale e sanitario su cui si baserà la strategia industriale di ILVA per i prossimi tre anni. Riprendendo quanto contenuto nel Piano consegnato al Ministro dell’Ambiente lo scorso 11 ottobre: Genon ha accennato alla possibilità di una radicale trasformazione del ciclo produttivo. Si tratta di una prospettiva già affacciatasi nelle scorse settimane, legata all’utilizzo di minerale di ferro preridotto (cioè minerale dal quale sono state estratte in buona parte le impurità che caratterizzano la sua presenza in natura) in sostituzione parziale o totale delle materie prime attualmente utilizzate (minerale in forma polverosa e coke).
Le conseguenze sulla struttura produttiva sarebbero enormi: cokeria e agglomerato – gli impianti che generano la gran parte dell’inquinamento – verrebbero ridimensionati, se non addirittura dismessi.
Inoltre, segnala il Piano, “nell’ipotesi (…) di modificazione alla tecnologia, con un uso più ridotto di carbone (conseguentemente di coke e di uso delle cokerie) sarebbe possibile arrivare anche a maggiori produzioni di acciaio”. In definitiva, potrebbe venir meno il limite di capacità produttiva fissato dall’AIA in 8 milioni di ton., sostituito da limiti imposti ai singoli impianti maggiormente impattanti.
L’assenza di limiti alla produzione, nel caso le innovazioni determinassero un miglioramento della struttura dei costi, permetterebbe significativi vantaggi competitivi per ILVA.
Non si tratta di una mera ipotesi di scuola. Secondo una traccia di lavoro al vaglio della dirigenza aziendale, entro il 2015 il preridotto dovrebbe sostituire una certa quantità di minerale in altoforno e di ghisa in acciaieria; ciò implicherebbe la chiusura definitiva di due batterie di cokeria e di un altoforno. Più in là nel tempo, entro il 2017, l’azienda potrebbe dotarsi di produzione in proprio di preridotto. Ciò implicherebbe un’ulteriore contrazione della produzione della cokeria. La realizzazione di preridotto, tuttavia, potrebbe non avvenire a Taranto; la sua localizzazione sarebbe vincolata, infatti, ad ampia disponibilità di minerale grezzo e, soprattutto, di gas metano. Si aprirebbe allora uno scenario analogo a quello sperimentato dall’austriaca VoestAlpine (la società proprietaria dello stabilimento di Linz), che di recente ha deciso l’installazione di un impianto di preriduzione in Texas, per sfruttare la possibilità – preclusa nell’Unione Europea – di estrarre metano attraverso il controverso processo fracking.
Le questioni sollevate dall’ing. Di Nardo e dal prof. Genon pongono una serie di problemi di rilevantissima portata. Ne richiamiamo soltanto alcuni.
1) L’AIA, su cui si basa l’ipotesi di ristrutturazione, è tutt’altro che un dato acquisito. Qualora la Valutazione del Danno Sanitario evidenziasse che le soluzioni adottate sono insufficienti a garantire la salute degli abitanti delle aree limitrofe, la Regione Puglia potrebbe chiedere una nuova revisione dell’Autorizzazione. Tuttavia il decreto interministeriale che rende operative le norme per la VDS, di fatto non consentirà di intervenire in fase, ma solo dopo il 2016, ad AIA già attuata – motivo per il quale ARPA e Regione Puglia hanno impugnato il provvedimento di fronte al TAR del Lazio. In definitiva, a conclusione dei lavori (e dopo aver speso miliardi) ci si potrebbe trovare punto e daccapo. Oltre tutto, di fronte a un quadro di persistente pericolo, potrebbe decidersi ad agire nuovamente anche la magistratura – come già annunciato dalla stessa Todisco. D’altra parte, anche l’ipotesi di trasformazione del ciclo non sarebbe esente da incognite sul piano ambientale: si è accennato alla possibilità di sfruttare il fracking (il fatto che, in questo caso, i rischi non sarebbero localizzati a Taranto non cambia di una virgola la questione in un’ottica ecologica), ma qualora si decidesse di insediare in loco la produzione di preridotto, tornerebbe attuale l’ipotesi-rigassificatore affacciatasi qualche anno fa o trarrebbe forza il progetto di metanodotto adriatico (il cosiddetto TAP).
2) Questi interrogativi ne pongono degli altri, di natura finanziaria. L’incertezza che caratterizza la prospettiva di ristrutturazione implica l’aumento esponenziale della rischiosità dell’investimento – tanto più in quanto si tratta di cifre di tutto rispetto –, gettando un’ombra sulla sua copertura da parte di istituti finanziari privati. D’altra parte, un’eventuale conversione del processo produttivo sarebbe soggetta a sua volta a un margine di rischio rilevante per via delle notevoli innovazioni da introdurre su svariati piani (impiantistico, logistico, gestionale ecc.).
3) In tutto questo non si può tralasciare la questione occupazionale: inevitabilmente la prospettiva di ristrutturazione implicherebbe un impatto meno grave su questo piano, ma d’altra parte i lavoratori potrebbero continuare a vivere in uno stato di tensione simile a quello manifestatosi nel corso dell’ultimo anno.
Tali questioni ne richiamano una di fondo: in assenza di una governance stabile e consapevole delle proprie responsabilità, è quanto mai difficile prendere decisioni di rilevanza strategica e disporsi a gestirne i rischi. Navigare a vista in mare aperto e in mezzo alla tempesta è il modo migliore per naufragare. In attesa che il Piano industriale contribuisca a chiarire la situazione o a renderla ancora più opaca, ci sembra utile richiamare un passaggio del Piano ambientale e sanitario: “si auspica che su questa fondamentale fase del processo venga effettuata una riflessione di prospettiva da parte sia del decisore politico, sia della conduzione aziendale”.
Se in Italia c’è ancora una classe dirigente, sarebbe necessario che battesse un colpo al più presto: l’entità dei nodi suscitati dalla questione ILVA è tale da non consentire ulteriori traccheggiamenti.